Quella volta con Michael Cimino, il ribelle che Hollywood odiava
Credo che quella sera pensasse di cavarsela con poco: un saluto, un bel discorso, una citazione, splendida per altro, dell'amico Bertolucci - il cinema è la nostalgia per qualcosa che non è mai esistito -, e ciao arrivederci. E invece no. Invece, andò diversamente. Un po' perché sul suo cammino quel piccolo grande uomo con cappello da cowboy e occhiali da sole alle 21 e passa di sera trovò un giornalista pazzo - io, per servirvi -che gli raccontò di essere cresciuto con la locandina de "Il cacciatore" sopra al letto: e soprattutto perché a sentirlo e vederlo era venuta un sacco di gente che gli voleva bene davvero, che lo considerava un genio assoluto, che era dalla sua parte più di quello che forse lui avrebbe mai pensato. L'unica volta che ho incontrato e intervistato Michael Cimino è stato esattamente undici anni prima della sua morte: era un 2 luglio anche allora, all'arena dell'Edison di Parma, ma del 2005. il suo film più recente (che poi sarebbe rimasto l'ultimo) era già di 9 anni prima: ma per tutti era ancora il regista de "L'anno del dragone" e de "I cancelli del cielo". Un mito. Che arrivò accompagnato dalla sua leggenda e dalla sua maledizione. Metteva soggezione nonostante fosse alto un metro e 65 circa: la pelle sembrava finta, di porcellana, gli occhi invisibili dietro quegli occhiali. Ma si sciolse ai primi applausi: finì con abbracci fraterni al sindaco di allora, pacche sulle spalle agli spettatori, calorose strette di mano, baci alle ragazze. Sì, insomma: un trionfo. Disse, in breve tempo (doveva tornare a Bologna), molto sul cinema, l'arte, il coraggio. Anche quello di chi amando sopra ogni cosa ilcinema, dal cinema era stato messo da parte: fuori gioco, ai margini, in castigo. Lui, il regista anarchico e ribelle che lottò sempre, inquadratura dopo inquadratura, contro il sistema e la politica degli studios: che aveva ancora molto da dare, anche se nessuno o quasi lo ascoltava più. . Pagò per sempre l'insuccesso de «I cancelli del cielo», western epico e inedito che portò al collassola United Artists. Divenne un «paria», lui che solo due anni prima aveva girato un film leggendario (devo rammentarvi la sequenza della roulette russa?) come «Il cacciatore». Eppure Hollywood gli rese sempre la vita difficile, difficilissima: nella sua carriera è riuscito a girare solo 7 film, alcuni immortali, altri sicuramente meno riusciti. Gli chiesi se continuava ad amare «Il cacciatore» - il suo filmpiù famoso, quello che gli aveva regalato l'Oscar -, come la prima volta, quando lo aveva girato: «Si può amare la stessa donna due volte nello stesso modo? Un amore speciale - disse - è davvero un amore speciale. Non credo che un sentimento così possa essere ripetuto o rivissuto, ma può essere sostenuto e alimentato». Fu una sera di carezze, bella forse anche per lui: ospite della fondazione Solares per ricevere il premio speciale per l'Eccellenza artistica, Cimino rivelò di avere parlato poco prima con Bernardo Bertolucci: «E’ un vecchio caro amico. Penso che, insieme a Polanski, sia il miglior regista al mondo. La mia ammirazione per lui è senza limiti. Mi ha consegnato - disse sorridendo alla platea - le chiavi della città. Mi ha detto: “Dì che hai parlato con me e che, per un’ora, ti ho dato il permesso di fare a Parma tutto quello che vuoi". Oggi il sindaco sono io». Era un gigante, il guerriero visionario di storie virili, il cavaliere solitario di una contro America che cercava, anche nella notte più fonda, il sole: pagò per tutti, sempre più del dovuto. Ma resta il simbolo di una storia americana. Maledetta, forse: ma che è impossibile non amare.