2021, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2021, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Madres paralelas: Almodovar e la verità, unica salvezza

La verità, nient'altro che la verità: unica forma di salvezza, necessità improcrastinabile, riscatto e simulacro, non solo ideale, dell'umanità. Perché Pedro lo sa, «il futuro è ora»: e nel mezzo di una guerra (anche contro noi stessi) che non è mai finita, non c'è Storia - come scriveva Galeano - che resti muta, che non rifiuti di stare zitta. E' l'abbraccio di due film, di due copioni differenti che diventano uno solo, «Madres paralelas», il «tutto su due madri» con cui Almodóvar affronta, nello stesso tempo, il rimosso di un Paese che ha sepolto la memoria in una fossa comune e le bugie, imponenti e altrettanto crudeli, della nostra vita (mai) comune. Puro «almodrama», che piaccia o no, col melò che guarda a Sirk ma sa reagire alle sue sventure, la cura maniacale (specie negli interni) a livello cromatico e di composizione dell'inquadratura (osservate quelle mele, le «nature vive» di un grande autore), la solidarietà femminile (in un mondo dove gli uomini, per lo più, fuggono dalle proprie responsabilità, demandano, o sono semplicemente inutili o assenti: anche se si può sempre migliorare...), il gioco, anche spietato, del destino, l'uso del medium (il teatro, la macchina fotografica...), i primi piani spericolati e senza rete. C'è tutto questo nella storia di Janis (come la Joplin...), quarantenne fotografa di moda, e Ana, 17enne spersa figlia di un'attrice: niente in comune a parte la stanza che dividono all'ospedale. Entrambe madri single, partoriscono lo stesso giorno. Creando un legame che in seguito conoscerà sviluppi assolutamente imprevisti.... Tra le ferite ancora aperte della guerra civile e la celebrazione del «miracolo» della maternità, Almodovar gira un film molto bello e denso sull'essere, in qualunque modo, famiglia. Un intenso dramma pubblico ma soprattutto privato ancorato alla memoria eppure proteso verso il domani. Poi è vero, a volte la trama risulta meccanica e certi snodi e svolte appaiono telefonati o (la love story tra le due donne) un po' posticci. Ma nel ritrovare l'amica del cuore Penelope Cruz, Coppa Volpi a Venezia come migliore attrice, e nel lanciare Milena Smit, entrambe bravissime, il maestro spagnolo ha una sincerità che commuove nel suo abbraccio agli antenati e in quello ai discendenti, nel rispetto dovuto a chi c'era prima e nell'amore riservato a chi verrà dopo: come se, in questo legame indissolubile, solo chi ci ha cresciuto e chi cresciamo possa dire chi davvero siamo.

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Dolor y gloria: Pedro, tutto su se stesso

“Il bravo attore non è quello che piange, ma quello che lotta per trattenere le lacrime”. Vale anche per i registi: sicuramente per Pedro Almodovar che nel suo commosso autoritratto, in questo personalissimo e universale film-bilancio, tra rimpianti, ricordi e incontri, di lacrime ne trattiene parecchie. E mentre Mina canta sull’amaca, con “Dolor y gloria” gira un film emozionante, sincero e libero, un’”autofiction”, come la chiamerebbe sua madre, dove non è detto che tutto sia vero e verificabile, ma di certo è reale il sentimento, la tenerezza, il (primo) desiderio.

La malattia, la depressione, la mancanza di ispirazione, l’ombra della morte, le reminiscenze: nella storia di un regista (Banderas, proiezione evidente dello stesso Almodovar) che fa i conti con sè e con il suo passato, ritrovando amici perduti e oggetti che credeva per sempre smarriti, “Dolor y gloria” (uscito ieri al D’Azeglio) è un film sul tempo, sull’amore che “smuove le montagne, ma non basta a salvare le persone che ami”, su rimorsi che rendono più tenui persino gli abituali colori pop (verde e rosso, quelli dominanti) cari al regista. Che qui, circondato dagli interpreti più fidati (non solo il feticcio e alter ego Banderas , migliore attore del Festival di Cannes, ma anche Penelope Cruz, nel ruolo di sua madre da giovane) è più volutamente controllato, gira con grande delicatezza, trova soluzioni (dalle animazioni al monologo teatrale) suggestive. Ma forse, sono solo i nostri occhi “che sono cambiati: il film è sempre lo stesso”.

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Amore criminale: la stupefacente storia di Pablo Escobar

Ha fatto atterrare un aereo in autostrada, quando era in prigione organizzava partite di calcio con i campioni della nazionale colombiana (che erano ovviamente invitati a lasciarlo vincere...) e per i sicari aveva messo su persino una scuola guida: ma, pur essendo l'imperatore indiscusso della droga, a suo figlio diceva: <Ascolta Nancy Reagan, non prenderla mai>.

Resta però da chiarire se davvero c'era bisogno di un altro film  dedicato a Pablo Escobar, il narcotrafficante più feroce e  famoso della storia. Verrebbe da dire di sì giudicando, fuori da ogni altro contesto, l'interpretazione <monstre> di Javier Bardem, che giganteggia, con pancia posticcia, nel ruolo del nemico pubblico numero uno nel  ritratto firmato dal De Aranoa di <Perfect day>: un film che guarda allo spietato criminale con gli occhi di una delle sue amanti, la giornalista televisiva Virginia Vallejo (Penelope Cruz, al quinto film con il marito Bardem), che poi ebbe una parte non secondaria nella sua caduta.

Ma in realtà, nonostante un'escalation avvincente e una prospettiva inedita, il film  non ha quel mordente o quella profondità di campo da renderlo indispensabile: De Aranoa ha piglio, una buona intensità (bella la sequenza di quando Escobar è costretto a scappare nudo), ma se da una parte il suo sguardo sembra limitato, anche il frequente ricorso alla voce off finisce con l'appesantire la pellicola rendendola didascalica. La storia d'amore del narcotrafficante con la Vallejo (autrice del libro da cui la pellicola è tratta) non aggiunge un granché a letture più stratificate, anche perché il regista non ha il coraggio di puntare con decisione sul legame tra i due, facendosi fagocitare dalla personalità straripante di un criminale di cui cinema e tv sembrano non potere più fare a meno.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Zoolander 2: il sequel è meno figoso nonostante la passerella delle celebrities

<Non puoi uccidere la moda!>. <Ho paura che la moda si sia già uccisa da sola...>.

E' un film vipposissimo e stiloso, remix ultra pop (e post demenziale) di un cult movie <postumo> (accolto con discreta indifferenza alla prima uscita, è diventato col tempo, anche in Italia, un venerato oggetto da collezione, come certe borse limited edition), il sequel fashionista di <Zoolander> che Ben Stiller ha girato in una Roma da cartolina 15 anni dopo (e si sentono tutti) dall'eccentrico originale, ormai diventato un marchio riconosciuto, un brand. <Costretto> dalle pressioni dei fans a risalire in passerella, Stiller al secondo tentativo assomiglia però a quei campioni che, abbandonata l'attività agonistica, tentano di tornare alle gare con esiti non proprio entusiasmanti: la forma è svanita, l'effetto sorpresa anche. E hai voglia di inseguire le tracce di simulacri anni '80 e '90 e di certe icone di ritorno (la Fiat 500, ad esempio) nel frullato massimo, ma <figoso> fino a lì, delle mille e una citazione. Perché sì, la banda <Zoolander> è ancora idiota abbastanza da strappare il sorriso, ma la pellicola, più che per la trama, insulsa e insignificante, attira l'attenzione solo grazie alla carrellata senza sosta delle celebrities della moda e non (da Anna Wintour - <la strega bianca di Narnia> -, potentissima direttrice di <Vogue>, allo stilista Valentino, grande a mettersi in gioco, ma sempre più simile al suo imitatore, da Sting con tanto di barbone ieratico a Katy Perry, da Marc Jacobs a Justin Bieber, che mentre muore si fa un selfie...), autoironici comprimari di un film-party dove anche i divi (Kiefer Sutherland, Susan Sarandon che cita <The Rocky horror picture show>, John Malkovich, Benedict Cumberbatch...) si prendono in giro, costellando di cammei, sulle note di hit di 30 e più anni fa, le avventure retro Bond e <stravistiche> (per dirla nella lingua Zoolù...) di Derek Zoolander (Stiller) e dell'inseparabile amico Hansel (Owen Wilson), super modelli ormai fuori moda che per rientrare nel giro si aggrappano (in ogni senso) a una procace agente dell'Interpol (Penelope Cruz), decisa a fare luce sugli omicidi di alcune rock star. Il mix delirante di parodia, family drama, buddy movie, commedia e spy story è però, oltre che volutamente esteriore, vuoto cavo all'interno e rischia di risultare indigesto a chi bazzica poco nel mondo fashion e un po' stantio anche agli amanti del primo film. Che speravano di rifarsi occhi e guardaroba: ma si devono accontentare di un cappotto vintage già liso.

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