Visse d'arte, visse d'amore: Maria, gli ultimi giorni della divina Callas
Si esibiva per la domestica, imbottendosi di psicofarmaci e costringendo il fedele maggiordomo a spostare continuamente un piano che nessuno suonava più. E sulle note struggenti della «Tosca», lei che davvero «visse d'arte, visse d'amore», inseguiva una voce irripetibile, smarrita negli anni, nelle ferite, nella fatica. Mentre la Callas stava svanendo e restava solo «Maria». E' bello sin dall'inizio - che poi è la fine, di una donna e di un'epoca - il nuovo film di Pablo Larrain, il grande regista cileno che racconta gli ultimi sette giorni della divina: con quel movimento d'ingresso lentissimo e tutto che accade - anzi è già accaduto - sullo sfondo.
Capitolo conclusivo della trilogia che ha dedicato alle grandi donne del secolo scorso - regine tristi prigioniere del loro stesso mito - l'autore, dopo Jackie Kennedy e Lady D, mette in scena l'ultimo atto dell'icona mondiale della lirica, usignolo che non volle mai lasciare la propria gabbia. E ne fa un personaggio tragico quanto le sfortunate eroine - Norma, Violetta, Madama Butterfly e tutte le altre - che interpretò, sul palcoscenico. Un'identificazione quasi commovente, perno di un film che accompagna una leggenda che amava essere adulata sul viale del tramonto, rielaborandone la storia, in modo assai più originale della media dei biopic, attraverso un'intervista immaginaria e momenti onirici che riportano improvvisamente l'artista, in quel momento lontana dalle scene già da oltre 4 anni, sotto i riflettori della sua fantasia.
Stilisticamente molto raffinato, elegante, capace di mescolare, complice un montaggio elaborato ma mai fine a se stesso, finto documentario, immagini di repertorio, bianco e nero e colore, flashback e sogno, cogliendo solitudine, grandezza e fragilità (dal rimpianto per Onassis a un'infanzia, crudele, in Grecia) di una donna osannata ovunque che morì, sola, ad appena 53 anni, «Maria» non è però solo il canto del cigno e l'uscita di scena di un'artista inimitabile, ma anche un film-opera sul significato (e sulla condanna) di essere diva, immortale tra i mortali, eppure vulnerabile e come loro soggetta alle offese del tempo, agli schiaffi del destino.
Vero fanatico della lirica, la sua grande passione insieme al cinema, Larrain, in un cast internazionale che conta anche i nostri Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher e Valeria Golino, regala il ruolo della vita ad Angelina Jolie (candidata al Golden Globe), intensa e sofferta nell'abbracciare il crepuscolo nelle quinte dell'amarezza: d'altra parte, «la felicità non ha mai prodotto una bella melodia».
Adagio: balordi, reduci e fantasmi. La Roma criminale di Sollima
Si regge da solo sulle gambe e tiene botta ma non fa quel passetto in più. «Adagio» dell'italiano Stefano Sollima che chiude la trilogia (iniziata con «Acab» e proseguita soprattutto con «Suburra») di Roma criminale, girando un film di reduci dove tira un po' un'aria da ultima partita, di tempi supplementari.
In una capitale-babilonia rovente, divorata dalle fiamme e dal caos, madre e matrigna sempre sull'orlo della fine del mondo, un film notturno e maledetto che segue le orme incerte di Manuel, un sedicenne ricattato da tre carabinieri corrotti: vittima sacrificale di un gioco più grande di lui, il ragazzo per salvarsi proverà a rivolgersi a due ex malavitosi, amici dell'anziano padre che ormai (ma è davvero così?) perde colpi...
Thriller sudato pieno di fantasmi e di balordi all'ultimo stadio, comparse a mano armata di una Roma, incancrenita e venduta, colta in un black out morale, «Adagio» ci mette un po' a carburare, ma poi, sulle note dei Subsonica, va in cerca (con Toni Servillo, Adriano Giannini, Valerio Mastandrea, Francesco Di Leva e un irriconoscibile Pierfrancesco Favino) di una redenzione impossibile, inseguendo tra sparatorie in stazione (bella e concitata la sequenza della resa dei conti) e cul de sac un altro giro in giostra.
Come spesso in Sollima i personaggi (antieroi declinanti sul viale del tramonto) sono più interessanti della storia e di una dimensione narrativa ma anche estetica un po' stravista: ma mentre Roma brucia c'è ancora tempo per vivere e morire.
Il volo da fermo del Colibrì
Che poi se ci pensi è tutto lì, in quello sforzo: quello che fai per riempire il vuoto. Che quello sforzo, mica lo capisci subito, ma è la vita: e, nonostante tutto, ti piace, ti basta, così. Anche se a volte scappi nella direzione sbagliata o credi di avere ancora tempo: ma è il tempo che si fa gioco di te. E allora «metti tutta la tua l'energia per restare fermo»: in attesa che quella bimba che dorme nell'amaca diventi abbastanza grande per dirle di non piangere.
Sa essere struggente - e toccante anche - per quanto non sempre voli altissimo - «Il colibrì» di Francesca Archibugi, trasposizione - ad alto rischio - del romanzo premio Strega molto amato e altrettanto letto di Sandro Veronesi, già di per sé, per concezione e struttura narrativa, «intimamente» cinematografico. Un libro che l'Archibugi affronta con rispetto mantenendo, coraggiosamente (ma opportunamente) l'ossatura di una storia mai lineare o cronologica, ma fatta tutta di salti, balzi, risonanze che la regista affronta con (pure a volte un po' meccanica) scioltezza, senza sottolineare inutilmente con date in sovrimpressione i continui cambi temporali, ma lasciando che a parlare sia il make up, la scenografia, i sentimenti.
In questo modo la vicenda umana di Marco Carrera, bimbo troppo piccolo per la sua età, ragazzo sopravvissuto rocambolescamente a un incidente aereo, adulto resiliente capace di resistere, mettendo gli altri davanti a sé, alle bufere e agli insulti della vita, uomo innamorato sempre e solo della stessa donna, ha un senso per tutti, ognuno ci riconosce la propria crepa.
Piuttosto il film, dove un'infinità di interpreti a fuoco (da Nanni Moretti a Berenice Bejo, da Benedetta Porcaroli a Laura Morante e Kasia Smutniak) si muovono intorno al protagonista Pierfrancesco Favino, nel non volere dimenticare nessun pezzo per strada, nel non riuscire a rinunciare a nulla, sovraccarica l'intreccio di eventi, ma non ha il tempo (come ha il romanzo o avrebbe avuto, brutto dirlo, una serie) di lasciarli decantare. Con il risultato che si fa fatica ad affezionarsi a questo o quel personaggio e che, paradossalmente l'overbooking sentimentale si traduca a tratti nello schermo, a causa della complessità della sintesi, in un bignami emotivo.
Restano però la tenerezza, i primi piani e una storia legata come un filo invisibile a un amore che non può finire, anche se forse non è mai davvero iniziato: e una dolcezza che sa raccontare lo strazio come la gioia. E dell'uno come dell'altra conosce nome e indirizzo.
Padrenostro: il mito del padre e il trauma degli anni di piombo
E’ il tentativo interessante di realizzare qualcosa che invece alla fine in realtà sfugge: non tanto per rievocare (o comprendere) gli anni ‘70, quelli di piombo, ma per cogliere, con la macchina da presa ad altezza bambino, l’archetipo - e il mito -, del padre, il tema dell’eroe nella terra dove tutti, chi torna a casa e chi resta sull’asfalto, sono e siamo uomini. Sceglie uno stile evocativo e cerca l’elegia, a rischio di apparire presuntuoso, «Padrenostro», film ambizioso e interessante con cui Claudio Noce affronta i suoi fantasmi (nel ‘76 suo padre, all’epoca vicequestore, venne gravemente ferito in un attentato dei Nuclei Armati Proletari), tentando di dare una forma al trauma del terrorismo, raccontandolo però, in modo originale, dal punto di vista della sua generazione. Ecco così la storia del piccolo Valerio che vede suo padre crivellato dai colpi dei Nap: l’uomo si salva, ma nello scontro a fuoco muoiono un terrorista e un poliziotto. E per il bambino cambia tutto: fino a quando non conosce un ragazzino di poco più grande di lui... Fare finta di dormire per farsi portare a letto in braccio, il primo bicchiere di vino, un amico immaginario che forse così immaginario non è: sulle note della PFM Noce trova cose belle, spunti non banali, coglie quel vivere con la paura addosso e gli effetti sui figli di un disagio adulto. Ma il suo sembra sempre un po’ un film fatto più per se stesso che per gli altri, manca di scrittura, di tessuto (se paragonato ad esempio a un altro film sull’infanzia, «Io non ho paura»), finisce per raccontare meno di quello che vorrebbe, anche se la raffigurazione della figura paterna in quegli anni è «mitologicamente» esatta, autentica. E passa per occhi di interpreti credibili: i «piccoli» Mattia Garaci e Francesco Gheghi e quelli di Pierfrancesco Favino (il padre), premiato a Venezia con la Coppa Volpi per un film di cui in realtà non è il protagonista.
Il traditore: Bellocchio e il melodramma di Cosa Nostra
La mafia? Non esiste. Però c’è Cosa nostra: ed è un grande melodramma. Te ne accorgi quando Bellocchio spara il Va’ pensiero a tutto volume mentre il giudice del maxi processo scandisce le condanne e i nomi degli imputati scorrono in sovrimpressione. E’ una delle sequenze più potenti del film, tesissimo, spettacolare, bello veramente, che il regista piacentino ha dedicato al “pentito” Tommaso Buscetta, un uomo che aveva un sogno: morire nel suo letto. E’ grande cinema e lo si capisce sin da subito, dalla prima mezz’ora quasi scorsesiana (tra balli, feste e omicidi) e poi avanti, tra innesti onirici rischiosi ma che invece funzionano alle perfezione (quel funerale da vivo, ma anche Andreotti che esce in mutande dal negozio del sarto...), flashback rivelatori (di un’educazione criminale, soprattutto), insopportabili sensi di colpa degni della tragedia classica che ne fanno uno spaccato rigoroso e insieme mitologico della recente storia italiana. Come ne “I pugni in tasca” (l’esordio di 54 anni fa), come in tutto il suo cinema, è ancora la famiglia a finire alla sbarra: in questo caso quella “mafiosa” (ma non solo), comunque violata, sempre disfunzionale. Un film, “Il traditore”, dove Bellocchio, lucido e vitalissimo nei suoi (quasi) 80 anni, recupera la grande tradizione del cinema civile italiano e tra un Falcone (finto) e un Borsellino (vero), costruisce sul volto di un bravissimo Pierfrancesco Favino -a cui ora sarà complicato non dare un premio -, il ritratto di un italiano vero.