Tre piani, con Nanni Moretti nel condominio della vita
Favorisca i sentimenti. I detrattori dicono che sia invecchiato, che col tempo abbia perso grinta, smalto: e qualcuno addirittura, uscendo, si domanda cosa gli sia successo. Eppure non c'è stanchezza, e noia neppure, in quel suo sapere cogliere l'equilibrio fragilissimo delle cose, il caos calmo di un'epoca smarrita. E' vero, manca l'ironia: ma nel mettere ordine tra quello che non cambia mai, prima che sia tutto diverso, ci sono le tracce di un film doloroso eppure aperto alla vita, alla pietà, un film sul perdonare e sul perdonarsi, un film sulla difficoltà (tra marito e moglie, tra padri e figli, tra fratelli...) di comunicare, di ritrovare la lingua perduta o resa vana degli affetti. Mette in scena un'umanità logorata, sola, prigioniera delle sue ossessioni, Nanni Moretti, che chiude il mondo su soli «Tre piani», per raccontare, con un'amarezza che non cede alla disperazione, le vicende destinate a intrecciarsi di alcune famiglie che abitano nello stesso condominio. Attraversato dal disagio, dal malessere, dal dubbio, «Tre piani», costruito su tre differenti movimenti (ognuno separato dal successivo da 5 anni), è un film fatto di abbracci e separazioni, di colpe e di accuse infondate, di assenze e di incomprensioni: uno spaccato borghese corale e polifonico che il regista di «Caro diario» ha tratto dall'omonimo romanzo dell'israeliano Eskhol Nevo, spostando l'azione da Tel Aviv a Roma, esaltandone gli elementi universali come la responsabilità delle scelte, il senso di giustizia, la responsabilità di essere genitori. Il tutto muovendosi verso l'incontro, la riappacificazione, un senso di comunità che credevamo perduto. O di cui pensavamo di non avere bisogno. Un film, «Tre piani», che ha un inizio folgorante (come una frustata) e poi paga una certa disomogeneità nella recitazione (cast di tutte stelle: oltre allo stesso Moretti, la Buy, molto brava, la Rohrwacher, Scamarcio e tanti altri), ma soprattutto alcuni passaggi non completamente a fuoco (è la prima volta che Moretti non utilizza un suo soggetto, e si vede) o comunque non sfruttati a dovere, della sceneggiatura. C'è, di fondo, un problema di intonazione: eppure resta profondo lo sguardo e il disincanto di un autore che sa che il futuro - ma pure il presente - è donna e come pochi conosce e sa raccontare la debolezza e la precarietà di quello che siamo.