2021, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2021, Festival, Recensione Filiberto Molossi

The forty year old version: la vita comincia a 40 anni. A ritmo di rap

“Certe volte serve una storia”. E Radha ne ha una che non è niente male: la sua. Cinema allo specchio, molto mixato, autarchico, autoanalitico e infine terapeutico, «The forty-year-old version» è il debutto sincopato, identitario, esplicito e autoriale (e non solo per quel bel bianco e nero da «street photography» che fa molto Sundance, dove non a caso l'anno scorso vinse il premio come miglior regista) con cui la magnifica quarantenne Radha Blank entra nel gioco grosso mettendoci la faccia, provando a togliersi di dosso - con notevole e (sia sempre) benedetta autoironia - quell'aria da eterna promessa mancata, qualche chilo di troppo e un grande futuro dietro le spalle. C'è, in questo esordio ispirato, l'intimismo alla Cassavetes, frullato col primo Spike Lee (per il quale la Blank ha scritto e prodotto la serie «She's Gotta Have It») e con non poco Woody Allen: solo che questa non è la Manhattan di Gershwin, ma l'Harlem arrabbiata del rap. Di cui l'autrice sente e respira la jungle fever e fa la cosa giusta: raccontando con un sorriso agrodolce il proprio tempo per raccontare, principalmente, se stessa. E viceversa. Drammaturga in disarmo, lontana da tempo dalle scene dopo avere fatto sperare una decina di anni prima in una gloriosa carriera, Radha, allergica ai compromessi, sta malapena a galla insegnando teatro in una scuola: all'affannosa ricerca di qualcuno che metta in scena il suo ultimo copione (troppo «black» per la società bianca), prova a riscattarsi scrivendo in rima la sua frustrazione, reinventandosi, grazie alle basi di un dj che sembra capirla, cantante hip hop fuori tempo massimo. Gentrificazione, elaborazione del lutto, pornografia della povertà: smascherati con violento umorismo gli stereotipi sia di genere che di razza che affliggono il presente, la Blank va in cerca della sua vera voce, trasformando la sua combat music nel manifesto sociale e politico di chi non è un personaggio in cerca d'autore, ma un'autrice in cerca di se stessa. Firmando un debutto-bilancio che insieme è partenza ma anche arrivo, approdo: nonché la conferma che il futuro (forse anche quello del cinema) è donna.

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Da 5 bloods, orgoglio black: il Vietnam struggente dei reduci di Spike Lee

«Non siamo a casa figliolo, non siamo a casa».

C'è una cosa bellissima in questo film, tra le tante: accade quando lo schermo si stringe in un 4/3 e la fotografia si fa anticata. Succede lì, nei flashback: dove i quattro protagonisti invece di ritornare giovani restano tali e quali a come sono, dei vecchi. Appesantiti e un po' malfermi, col fucile in mano, la divisa, l'elmetto. Qualcun altro avrebbe ingaggiato per impersonarli attori di 20 anni, oppure utilizzato (come Scorsese) le costosissime tecniche digitali per togliergli le rughe e qualche decina d'anni. Ma non lui, non Spike Lee: uno che è da 30 anni che fa la cosa giusta. E quei quattro reduci li voleva così: ancora imprigionati nell'anima corrotta di una guerra maledetta che non finisce mai veramente: «come le mine sotterrate che fanno ancora morti dopo tutto questo tempo».

Marvin Gaye, Edwin Moses, il gran rifiuto di Muhammad AliPerché dovrei sparare ai vietcong? Loro non mi hanno mai chiamato negro»), la maledizione dell'oro, «Black Lives Matter»: potente, profondo, traumatico e doloroso nella sua circolarità - dal prologo, efficacissimo, che stabilisce un collegamento indelebile tra la guerra in Vietnam e e le contemporanee proteste, soffocate con la violenza, dei neri in America all'epilogo che evoca George Floyd e si chiude sulle parole del reverendo King -, «Da 5 bloods» è un film struggente e pieno di fantasmi, di cicatrici, di sbagli che hanno ancora conseguenze, di furia cieca, di insopportabili sensi di colpa, di conti mai regolati, di figli disconScosciuti e ritrovati. Là dove i fratelli «non moriranno ma si moltiplicheranno», il regista afroamericano gira un film militante e orgogliosamente black, immaginando il ritorno nel Vietnam di oggi, colonizzato da McDonald e Pizza Hut, di 4 soldati Usa che lì hanno lasciato, sepolto nella polvere, un amico. E una cassa piena d'oro...

E in questo ritorno all'inferno, in questo viaggio dentro i propri demoni, Lee non nasconde un grande bisogno di redenzione, nella consapevolezza che la vera guerra (quella coi bianchi, col potere, con secoli di vergogna e sfruttamento) infuria ancora nelle strade, nelle metropoli, nei ghetti: il regista gonfia il petto di retorica nera, ma ne fa manifesto in un momento storico in cui la rivolta riesplode e tutto cambia per restare uguale. Vero, alcuni passaggi sono grossolani o troppo spiegati e il film si dilunga, ma l'autore de «La 25ª ora» fa bene anche il lavoro sporco, alternando le sequenze belliche ai monologhi-sermoni con lo sguardo in camera, alla ricerca di una verità storica che vada oltre la propaganda che più bianca non si può di Rambo & friends, prendendo volutamente le distanze dal «genere Nam» (le citazioni di «Apocalypse now», che ora al massimo è il nome di un disco pub) e da «quelli di Hollywood» che «cercano sempre di vincere la guerra del Vietnam». È la classe di un regista che sa quando è il momento di alzare la voce. «Mi sentite?». «Ti sentiamo».

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2018, Festival, Classifiche Filiberto Molossi 2018, Festival, Classifiche Filiberto Molossi

Cannes, ecco il pagellone: seconda parte

Finito il festival, con due premi ai film italiani e la vittoria di Shoplifters (voto 8, vedi precdente pagellone), ecco la seconda parte dei nostri voti alle pellicole in concorso.

BLACKKKLANSMAN 7+

Il film che rilancia le quotazioni di Spike Lee: una commedia d'azione politica e anti Trump che fa rivivere l'epoca blaxpoitation. Risate: ma pensando che oggi forse è peggio di ieri.

EN GUERRE 5,5

Da Brizé un altro sguardo amaro e severo alle leggi del mercato: rabbia anticapitalista, ma qui si rasenta il documentario e i tavoli della trattativa si rivelano estenuananti.

UNDER THE SILVER LAKE 4,5

Un frullato poco digeribile di Lynch, Richard Kelly, Cronenberg e Hitchcock. Ironia e citazioni a valanga: ma sembra il film di uno che ha fumato roba non troppo buona.

PLAIRE, AIMER ET COURIR VITE 6

Melodramma gay ben scritto e ben interpretato, non privo di ironia: ma dire che interessi quello che accade è un po' molto.

BURNING 7,5

Tratto da Murakami: prima parte molto bella, meno la seconda, più apertamente thriller. Ma è un film dove a volte durante una sigaretta fumata senza dire niente si dice tutto. 

DOGMAN 8

Un noir metafisico e alienato, un bellissimo spaccato umano che accarezza l'abisso e tende al punto di non ritorno. Marcello Fonte, Palma per il migliore attore a Cannes, è straordinario.

CAPHARNAUM 6,5

Un occhio a Saalam Bombay e un altro a Sciuscià nell'inferno di bambini e immigrati. Un po' già visto, ma forte l'idea di partenza col ragazzino che denuncia i genitori per averlo messo al mondo.

UN COUTEAU DANS LE COEUR 4,5

Ambientato nel mondo del porno gay anni '70 avrebbe potuto essere il Boogie nights francese, ma si accontenta di assomigliare a un brutto film di Dario Argento.

THE WILD PEAR TREE 8

Il cinema di Ceylan è una ragazza che ti eri dimenticato quanto era bella, un bacio rubato, un morso nel vento. Un film che scava anche quando tutti dicono che è inutile.

AYKA 6 +

Ritratto spietato della Russia che si prepara ai mondiali, gelo anche morale, 12 ore al giorno di lavoro, spietatezza diffusa. Anche qui non molto di nuovo: ma una bella ansia.

 

 

 

 

 

 

 

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