A complete unknown: Dylan, il mito che soffia nel vento
Trovate un altro come lui: che ha vinto l'Oscar, il Golden Globe e svariati Grammy. E poi un giorno pure il Nobel: e nemmeno è andato a ritirarlo. Insisto, trovate un altro come lui: capace di influenzare in modo così radicato e potente la cultura (non solo di massa) del XX secolo, ma anche di questo. Ritratto del giovane in fiamme: Bob Zimmerman in arte Dylan dal '61, quando davvero era solo un completo sconosciuto, al '65, l'anno della svolta elettrica. Cinque anni nella vita di un cantautore-genio che mentre la gente si divertiva a riscrivere il passato interpretò come nessuno la voce del presente.
È un film-inno che ci rappresenta tutti (o perlomeno tanti), il manifesto di uno stato d'animo, il vibrato di un'epoca, «A complete unknown», il biopic con cui James Mangold (che già dedicò a un altro gigante come Johnny Cash «Walk the line-Quando l'amore brucia l'anima») ripercorre i primi anni di carriera dell'autore di «Blowin' in the wind», privilegiando musica e parole di brani immortali che - riproposti rigorosamente dal vivo - mettono ancora i brividi, in un'operazione rischiosa che si distingue però per serietà, dedizione, onestà.
Liberamente ispirato a «Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica» di Elijah Wald, «A complete unknown» racconta l'ascesa di un ragazzo partito dal Minnesota con una valigia piena di canzoni (e di sogni) e arrivato ben presto a conoscere l'estrema solitudine di una popolarità che a volte ti prende (e non è un modo di dire) a pugni in faccia. Woody Guthrie muto e in ospedale, Joan Baez sulla copertina del Time, Pete Seeger mentore rinnegato a Newport: e i missili a Cuba, Kennedy e Malcolm X in una pozza di sangue. Negli anni in cui accadde tutto e una generazione alzò la voce accompagnandosi con una chitarra, Mangold ricostruisce la figura immensa, scomoda e spigolosa di un mito di cui tutti pretendevano un pezzo, artista a 360 gradi che tutto voleva essere tranne quello che gli altri volevano che fosse.
Del menestrello antisistema e controcorrente che sfidò i poteri forti, poi pietra rotolante sempre un passo avanti agli altri, tacciato di avere tradito il folk (quando invece ne sfuggì solo il conformismo), il film non nasconde (soprattutto nei rapporti interpersonali) le ombre urticanti di una personalità da sempre enigmatica, difendendone però il diritto di non appartenere a nessuno tranne che a sé stesso.
Se poi Timothée Chalamet, autore di un'interpretazione immersiva, sembra davvero l'unico in grado - per talento, divismo e carisma - di impersonare in questo momento l'icona Dylan, la pellicola, intensa ed emozionante, risulta però, anche dal punto di vista stilistico, classica, sin troppo, in un certo senso, «educata». Ma è indubbio che sulle note finali di «Like a rolling stone» ci si scopra una volta di più dylaniati, nella speranza che avesse ragione quel ragazzo spettinato. E che davvero «il primo di adesso sarà presto l'ultimo». E che si possa tornare tutti insieme a cantare «The Times They Are A-Changin'».
Dune: Parte 2, la bellezza e l'orrore
È proprio così: «la bellezza e l'orrore». La maestosa magnificenza dell'orizzonte del nulla e la brutalità affilata e «banale» del sangue e delle lame. Là dove tutto è rito, cerimonia, iniziazione, Denis Villeneuve continua a diffondere il verbo: e con implacabile (e strisciante) forza seduttiva (la «reverenda madre» del suo cinema) nutre il battito visionario di un kolossal sì epico e romantico, ma soprattutto politico. «contemporaneo».
Perché nella storia del ragazzo che non voleva essere il messia - ma bevuto il veleno dell'ambizione è costretto ad accettare il suo destino e a vestire i panni dell'eletto che può indicare la via -, il grande regista canadese de «La donna che canta» e «Arrival» agita anche le profezie dell'oggi, tra incubo nucleare e rivolta terzomondista, strenua difesa del sistema (che si autorigenera sempre uguale a se stesso) e guerra santa, realpolitik e protervia del controllo. Costruendo, nella continua contrapposizione degli accecanti ocra e arancio degli esterni e del buio marziale degli interni, l'ipotesi di un (altro) mondo possibile.
Trascendente e metafisico (ma d'altra parte opportunamente ancorato a una fantascienza tangibile, di carne, polvere e metallo), il secondo atto di «Dune», film-progetto pensato e realizzato in grande, fonde il racconto di formazione (l'ascesa di Paul Atreides che, accolto dai ribelli Fremen, ne diventa il leader contro gli invasori Harkonnen) con il melò (la storia d'amore con l'indigena e laica Chani, sentimentale ma razionale, di gran lunga il personaggio più integro), cavalcando suggestioni mistico-shakesperiane che rinnovano - complice un cast molto glam, molto «figo» (Chalamet, Zendaya, ma anche new entry come il leggendario Christopher Walken e un irriconoscibile e mai così crudele Austin Butler) - una suggestione potente, una fascinazione avvolgente.
Laggiù, nel pianeta di sabbia: su un campo di battaglia dove la smisurata brama di potere incontra la fede più assoluta: quella nella speranza.
The French Dispatch: il film pop-up di un regista che libera la testa
Ci sono molti aggettivi, molte parole, moltissime (morbide, colorate, lievi), per descrivere il cinema raffinato e irresistibile di Wes Anderson. Ma forse ce n'è una che le racchiude tutte: delizioso. Fiabescamente vintage, surreale, dolcemente ironico: ma più di tutto delizioso. Non sfugge alla regola nemmeno «The French Dispatch», un film che si sfoglia come una rivista, l'ultimo lavoro del regista texano sette volte candidato all'Oscar (che però - ma siete matti? - non ha mai vinto): girato con il tocco del grande illustratore, forte di un'immaginazione sempre fertilissima, è una lettera d'amore al giornalismo, capace di passare con disinvoltura estrema dal colore al bianco e nero, dai 4/3 allo schermo pieno. Divisa in vari capitoli (come le sezioni di un giornale), la pellicola, godibilissimo divertissment dai colori pastello (quel giallo senape, gli azzurri, i verdi, i rossi: chapeau), racconta di una redazione americana con base nella Francia del XX secolo la cui chiusura ormai sembra imminente... Ma nell'ufficio del caporedattore (Bill Murray, l'attore feticcio di Anderson) fa bella mostra di sè una scritta che non lascia adito a dubbi: «Non piangere». Arte moderna, il Maggio del '68, la venerazione per gli chef (qui ce n'è uno che si chiama Nescaffier...): l'autore fuori dagli schemi di «Moonrise kingdom» e «The Grand Budapest Hotel» guarda stilisticamente al suo adorato New Yorker, facendosi gioco degli stereotipi per proporre col sorriso sulle labbra i suoi elaboratissimi quadri vivant, non disdegnando nemmeno l'utilizzo del fumetto. Vera e propria gioia per gli occhi, sospesa tra la fantasiosa rivisitazione d'epoca e il gusto ingegnoso per l'inquadratura (sovraffollata di oggetti, di particolari, di persone), «The French Dispatch» è un caleidoscopico film sul mondo che (purtroppo) cambia, la nostalgia di qualcosa che non è mai esistito, pieno di idee (il detenuto che dipinge la bella guardia carceraria, la partita a scacchi a distanza tra il leader del movimento studentesco e il governo...) e ricchissimo di star (l'elenco degli amici di Wes è davvero infinito: da Benicio Del Toro a Owen Wilson, da Frances McDormand a Timothée Chalamet, da Léa Seidoux a Christoph Waltz....): si apre come un libro pop-up, libera la testa e porta beneficio anche agli sguardi affaticati.
Dune, sabbia e passione: Villeneuve sfida la maledizione
Di metallo, di sabbia, di roccia, di avidità e di ambizione: oltre che, ovviamente, di sangue. Arriva nelle sale così come era sbarcato - in un'attesissima anteprima mondiale andata subito sold out - a Venezia: con quel passo marziale che solo certi film possono permettersi il lusso di mostrare con orgoglio: consapevoli della grandezza della sfida, capaci di essere all'altezza del loro stesso destino. Prima parte, da 165 milioni di dollari, di una saga che si annuncia affascinante e suggestiva, «Dune», fanta kolossal di Denis Villeneuve (il regista di «Arrival» e «Sicario»: ma per l'amor di dio andate a rivedervi anche «La donna che canta»...), affronta l'ultra complesso e attualissimo mondo creato (in sei romanzi) da Frank Herbert con cui si erano già scottati, anni addietro, David Lynch (che pure, tra molti problemi, ne tirò fuori un cult) e Alejandro Jodrowsky, che invece non riuscì a farne nulla.. Materia sabbiosa che sfugge per definizione dalla presa, «Dune», che il grande regista canadese (uno che non ha avuto paura nemmeno di misurarsi con il monolite «Blade runner») trasforma però in un'esperienza cinematografica sontuosa, in particolare dal punto di vista visivo, donando prepotente profondità espressiva alla costruzione di un immaginario a cui è difficile resistere, oltre che perfettamente inutile. In universo sul baratro di una guerra santa, dove la ricchezza e il potere si basa sulla ricerca della Spezia, la materia che permette di compiere i viaggi interstellari, la casata degli Atreides viene inviata a governare Arrakis, il pianeta inospitale dove viene estratto il prezioso elemento... Nell'attesa di un messia che non sa se vuole essere tale, il film segue le visioni di un giovane eroe pallido e tormentato, nella certezza che anche l'eletto ha molta strada da fare. Appassionante ed epico, «Dune» (che nell'idea del regista dovrebbe essere una sorta di «Star Wars» per adulti) non lesina sugli effetti speciali, non inseguendo però una spettacolarizzazione di concetti alti fine a se stessa, ma piuttosto investendo risorse e creatività in un decor ricercatissimo - sia in interni che negli assolatissimi esterni - la cui potenza è sottolineata da una colonna sonora (di Hans Zimmer) che (come spesso accade nel cinema dell'autore canadese) invade lo schermo coi suoi bassi inquietanti. Un altro, importante, tassello - dopo «Arrival» e «Blade runner 2049» -, nella riflessione sulla fantascienza esistenziale condotta senza rete da Villeneuve, che qui, cosa di non poco conto, si avvale anche di un cast oltremodo glam ed «eccitante»: dal protagonista Timothée Chalamet a Zendaya, da Oscar Isaac alla bellissima Rebecca Ferguson, da Javier Bardem a Josh Brolin. Stelle di un cielo color sabbia.
Un giorno di pioggia a New York: se Woody crede ancora all'happy end
<La vita reale è per chi non sa fare di meglio>.
La poteva girare solo lui – e chi altri? -, uno che ama il cinema e i vecchi film, e crede ancora, fosse anche disperatamente come un qualsiasi di noi, nell'happy end, una commedia così: senza ombrello e senza cravatta, sofisticata eppure fresca (merito anche degli interpreti: giovani, carini, scelti molto bene), romantica e sincera. Una favola con momenti di squillante verità (la confessione della madre del protagonista è un climax inatteso e moralmente importante, sottolineato anche stilisticamente dall'inesorabile avvicinarsi della macchina da presa), l'ultima, boicottatissima e ostracizzata, prova di Woody Allen che, travolto e messo al bando negli Usa (dove il film non è ancora uscito) dal ciclone #MeToo, cerca consensi nella più tollerante Europa, scoprendo una vena felice nel suo essere non banalmente uguale a se stesso, nel dovere di ribellarsi a una monotona e pretestuosa adeguatezza, nel riconoscersi in chi ancora non ha scelto chi essere, in attesa che la bella moretta arrivi puntuale all'appuntamento che non gli abbiamo mai dato.
C'è molto, moltissimo, dell'Allen pensiero in <Un giorno di pioggia a New York>: una coppia che va in crisi, il metacinema, il sottofondo jazz, la critica agli intellettuali, l'ebraismo, la vacuità della celebrità, le (auto)citazioni (come un Empire che si vorrebbe in bianco e nero...), il gusto per la battuta colta, la Grande Mela. Ma rispetto ad altre prove più opache, l'84enne regista, sganciato dall'obbligo di cercare una risata fragorosa, qui sembra più a suo agio a confrontarsi – per interposta persona – con un mondo a cui sembra volere dare un'altra possibilità.
Immerso nella fotografia volutamente irrealistica e accentuata del nostro Vittorio Storaro, che vira tutti gli interni ai colori del crepuscolo, riproducendo luce e riflesso di un tramonto perenne e ideale, il film racconta la storia di una giovane coppia di fidanzatini che parte per New York dove lei, la bionda Ashleigh, deve intervistare per il giornale del college un grande regista. Il suo ragazzo, Gatsby, decide di farle trascorrere un weekend indimenticabile, ma le cose per entrambi si complicheranno presto...
Da una parte l'inutilità snob dell'upper class, dall'altra le miss sorriso di vattelapesca che ancora si sciolgono (per avere qualcosa da raccontare ai nipotini...) di fronte ai miti di una fragile Hollywood: ma più che la critica sociale o di costume, Woody stavolta rende centrali le ansie del suo giovane protagonista (il lanciatissimo Timothée Chalamet, molto efficace), un <idiota speciale> non particolarmente bravo a baciare, giocatore d'azzardo fortunato e fumatore incallito, una passione per i film classici, i piano bar e i vinili (magari quelli di Irving Berlin), molto ben scritto nel suo ritrovarsi senza né arte né parte, inattuale e anacronistico, eppure consapevole di non volere quello che gli altri vogliono per lui. Brillante e imperfetto come forse solo lo stesso Allen sa essere, mentre, guardando a <L'ora di New York> e a <Lo sceicco bianco>, raggiunge la maturità di chi ha capito che si vive una volta sola: <e una volta basta se trovi la persona giusta>.