I dannati, la guerra astratta e senza Dio di Minervini
È invisibile il nemico: fuori fuoco, chiuso in un orizzonte imprevisto, fantasma della mente e della carne che ti divora come un tarlo a margine dell'inquadratura. Non c'è: eppure, spara, fa male, uccide. Nel nuovo film di Roberto Minervini, premio per il miglior regista a Un Certain Regard al Festival di Cannes, la guerra più che altro è un’astrazione, qualcosa di concettuale, di non realmente tangibile: una terra di nessuno dove però si muore (e si piange) davvero.
Il Bene, il Male, l’assenza di un senso. E quella di Dio. È la guerra che ti fa perdere te stesso, e non ha risposte quella che racconta nel suo western esistenziale e rarefatto questo italiano d’America, autore serio, lucido e rigoroso che dalla Croisette torna con qualche certezza in più sull'onda del lungo, convinto, applauso con cui è stato stato salutato il suo primo lungometraggio di finzione dal titolo emblematico nato ancora prima del film: «I dannati».
Divisa in tre ideali movimenti - l’accampamento, la battaglia e il viaggio -, debitrice di un’estetica che per sguardo e fotografia ricorda da vicino Malick, la pellicola segue le tracce di un plotone di volontari nordisti che, durante la guerra di secessione, è inviato a Ovest, per esplorare una frontiera sconosciuta: gente comune che per lo più non ha mai sparato a un uomo e che affonda gli stivali nella neve in attesa, forse, che sia troppo tardi.
Utilizzate in modo molto funzionale e poetico ottiche speciali (ideate da Zack Snyder) che esaltano il grandangolo e mettono a fuoco, in maniera particolarmente suggestiva, solo una porzione dello schermo (quella centrale), Minervini coglie, con tecnica da documentarista, il quotidiano di questa umanità «smarrita», lasciando che la paura, le speranze, la fede (o la mancanza di essa) attraversino volti che sembrano realmente usciti da due secoli fa, in una ricerca di verità che è tra i pregi principali di un film molto bello e molto sincero (nelle intenzioni come nella realizzazione e infine negli esiti) che si non si lascia corrompere dai facili schemi e dai trucchi da poco del cinema mainstream.
How to have sex, la prima volta di Molly
Il bagno a mezzanotte, le siga, porzioni extralarge di patatine, lo smartphone sempre in mano, le risate, le docce ed eventualmente le lacrime: mentre la musica batte in testa nelle notti al neon virate al blu e i corpi si sfiorano, là sulla pelle liscia e acerba del mondo, dove la gioventù suda e il desiderio urla.
C'è una sincerità che non accetta compromessi, che non scende a patti, nell'opera prima, liquida e non rassicurante, della trentenne londinese Molly Manning Walker che tratta con maturità il tema della prima volta e quello, ancora più scomodo, del consenso. Lo fa con un film fisico e plastico (alla Korine), che ti schiaffa in faccia, tra uno shottino e l'altro, la complessità incosciente dei sedici anni, nell'after hour senza sosta di chi cerca di diventare grande.
Montato molto bene, senza tregua, con la camera a mano che diventa la quarta amica - quella immaginaria ma anche la più onesta - delle tre protagoniste, sbarcate in Grecia per le vacanze, «How to have sex» (vincitore a Cannes di «Un certain regard») accarezza, con solidale sensibilità femminile, imbarazzi, voglie, segreti, delusioni, trovando facce, tatuaggi e interpreti giuste: senza usare creme protettive nell'abbandonarsi a un sole che, oltre a brillare, inevitabilmente, scotta. Quando non brucia.
Girl, l’inferno dell’identità in un debutto osannato
Ci sono film che sono sorprese: e a volte anche regali. Senza fiocchi, senza confezioni: nudi – e liberi - nella loro verità. Arrivano inaspettatamente, senza invito, ma accolti, magari, tra lacrime e ovazioni: come <Girl>, l'opera prima, osannata all'ultimo Festival di Cannes (dove ha vinto la Camera d’oro), di un 26enne belga, Lukas Dhont. Che si avventura con molta delicatezza e ancora maggiore comprensione (ma con altrettanta forza espressiva) in un terreno minato e a forte rischio di semplificazione come quello del cambiamento di sesso. Affrontando l'inferno dell'identità per realizzare in realtà un film doloroso, vero e determinato sull'adolescenza, sulla difficoltà di crescere, di essere, di trovarsi.
La storia di Lara, che in realtà è nata Victor: prigioniera di un corpo non suo, intrappolata in uno specchio che non smette di rifletterla <sbagliata>, si sta preparando all'operazione che può cambiarle la vita; ma nello stesso tempo si impegna allo spasimo per coltivare il suo grande sogno: essere ammessa in una prestigiosa scuola di danza classica.
Sentirsi donna ma non poterlo essere davvero, almeno non completamente, se non attraverso vincoli, limitazioni, stratagemmi: resa tangibile (specie nelle faticosissime, frustranti, sessioni di danza, montate tra loro in maniera molto energica) la lotta interiore di una giovane eroina che a soli 15 anni ha deciso chi vuole (e deve) diventare, Dhont smonta le facili convinzioni sulla nostra percezione dei generi facendo sì che il suo film sia attraversato non solo da un desiderio prepotente e confuso, ma da un'ansia, da un'apnea che sottolineano anche le sequenze più morbide. Come se la corda – tesa verso il domani, verso l'ignoto - fosse sottile e bastasse un nulla per spezzarla. E' la cifra - la guerra - di una pellicola che descrive con molta cura e attenzione il rapporto tra l'adolescente e suo padre (che l'appoggia completamente, ma non può fingere di non preoccuparsi per lei), imponendosi con uno stile indie di non scontata tecnica e riuscendo a sopravvivere anche a un finale choc dove si prende grossi rischi: merito anche dell'interpretazione realmente strepitosa e sorprendente del 16enne debuttante Victor Polster (migliore attore di <Un certain regard>), ballerino professionista che sullo schermo diventa quello che Lara è già: una donna.
Fortunata, una strategia basata sull'amore
<Devi fare una strategia basata sull'amore>.
Che mica servirebbe solo a lei, a Fortunata: sempre di corsa, col reggiseno che spunta dalla canottiera, il rossetto messo in fretta, la ricrescita nei capelli. Novella Antigone in guerra colmondo, incapace di non ribellarsi alla sua meschinità: con quel nome che sa di sberleffo, che non le rende giustizia. Ma anche a Sergio Castellitto che il cuore, quello, ce lo mette sempre: piuttosto manca un po' di sobrietà, di misura, di equilibrio. Succede così praticamente in tutta la sua produzione da regista e non fa eccezione nemmeno <Fortunata>, il film sudato e proletario che ha girato in una Roma assolta e multiculturale. Traducendo in immagini una sceneggiatura della moglie Margaret Mazzantini, che immagina la parabola di una giovane madre (Jasmine Trinca, bravissima: e premiata come migliore attrice di Un certain regard a Cannes) che cerca di guadagnarsi giorno per giorno il suo diritto alla felicità: tra un ex marito violento, gli usurai cinesi, il sogno nel cassetto di aprire un negozio da parrucchiera...
Ambientato in una borgata quasi immaginaria da tanto la realtà sembra abitare altrove, il filmdi Castellitto ha un gran bel personaggio, viscerale, ma porta all'eccesso, saturandole, situazioni già estreme, smarrendosi in una ridda di personaggi improbabili, canzoni troppo facili sparate a tutto volume, dialoghi che anche no (<E' importante il teatro>. <Ma la fregna di più>), sedute di analisi che farebbero rabbrividire Freud e Musatti, lunghi assoli di tromba, amiche che sembrano uscite da un (brutto) film di Almodovar.
Dedicato a chi, nel mondo, si sente poco più di un numero ritardatario, di quelli che non escono mai, umanità invisibile che può contare solo su se stessa, <Fortunata> guarda con affetto quel difficile stare a galla di chi convive, con dignità, con i suoi incubi: ma se da una parte Castellitto sa dirigere gli attori, quando la pellicola alza il tono e aggiunge invece di asciugare sbanda in maniera evidente. E quando accade è troppo tardi: non c'è strategia che tenga.
Rams: di uomini e di pecore. E di antichi rancori
Di uomini e di pecore. E' un film sospeso, dove il tempo non ha ragione di passare, <Rams>: ibernato in una terra di nessuno come un vecchio e cieco rancore di cui forse si è perso persino il filo, la causa, la ragione. Intransigente quanto l'astio e rigido come le stagioni, incastrato in un luogo non luogo dove il Natale lo festeggi da solo: e ti fai pure il regalo. Un film di barbe lunghe, risentimenti antichi e spessi maglioni di lana: ma, più di tutto, un film curioso. Che al giorno d'oggi no, non è poco. Singolare (e ruvido) nell'ambientazione – un'Islanda rurale e isolata, finalmente né da spot né da cartolina, in cui il paesaggio è terzo, spesso scomodo, interlocutore tra i due protagonisti -, spigoloso e reticente nei caratteri, onesto nel raccontare una normalità e un quotidiano (se felicemente o no giudicate voi) fuori dal mondo e dall'omologazione.
Gummi e Kiddi sono due anziani fratelli che non si parlano da 40 anni: i pochi, rari e per nulla concilianti, messaggi se li scambiano grazie a un cane, improvvisato postino. Entrambi pastori, vivono per superarsi all'annuale premio per il miglior montone: ma un giorno, a causa del pericolo di un'infezione, il sistema sanitario gli intima di abbattere tutte le loro bestie...
Vincitore di <Un certain regard> all'ultimo Festival di Cannes (la giuria era presieduta da Isabella Rossellini) e candidato a miglior film dell'anno agli Efa, gli Oscar europei, <Rams>, nonostante una locandina e un sottotitolo (<storia di due fratelli e otto pecore>) fuorvianti che lo vendono come una commedia (quando invece, al di là di una certa paradossale ironia, il contesto è più che serio), è un dramma familiare dove riconoscere l'inutile ostinazione dell'odio e del livore, un film di stati d'animo, magari sin troppo elementare e scarno, ma efficace nel cogliere, in quella ostile solitudine, il rapporto esclusivo tra uomo e natura e tra uomo e animale. Che può anche risultare, improvvisamente, commovente.
Un cinema di piccole cose e di poche parole ma di sentimenti fondi, ancorati, essenziali eppure stratificati, quello di Grímur Hákonarson, 38enne islandese all'opera seconda: dove, prima che sia troppo tardi, nella tormenta che infuria è anche possibile ritrovarsi e riscoprirsi fratelli.