Cafarnao, i bambini ci guardano
Le due anziane signore al tavolino vicino al mio erano sicure, direi addirittura certissime: e, tra una cozza e l'altra, per nulla intimorite dala barriera della lingua, avevano deciso di comunicarlo se non al mondo intero almeno a me. <Il film più bello? E' Cafarnao>. Una sentenza, quasi. Ed è da allora, dal Festival di Cannes del maggio scorso – dove, tra molti appalusi, vinse il Premio della giuria - che <Cafarnao> della libanese Nadine Labaki, non fa che dividere: sopravvalutato da alcuni, oserei dire, forse obnubilati dal Muscadet, ma, d'altra parte, sicuramente (e programmaticamente?) sottovalutato da altri, che ne vedono solo le scorciatoie emotive e i ralenti compiaciuti.
Intendiamoci, in realtà, il film, di spiccata vocazione neorealista (la pietra angolare qui è <Sciuscià>), non è niente male, piace al pubblico (che piange grato) e soprattutto ha una gran bella idea di partenza: a Beirut infatti, un ragazzino indigente di 12 anni, dopo innumerevoli traversie (è stato arestato per avere accoltellato l'uomo a cui i genitori hanno dato in sposa la sorella minore), trascina i suoi genitori in tribunale. Con quale accusa? <Per avermi messo al mondo>. Il <la> è notevole, il resto (si pensa soprattutto a <Salaam Bombay>) un po' già visto: ma mentre l'incessante rumore degli elicotteri minaccia altre guerre a lacerare un Paese già ferito, il film (candidato all'Oscar) che la regista di <Caramel> gira ad altezza bambino mette in scena alcuni dei problemi più urgenti dell'oggi: miseria, emarginazione, spose nemmeno adolescenti, sfruttamento degli immigrati. E' lo sguardo degli ultimi che si posa su un mondo che va in giostra: una tragedia collettiva che in tribunale porta anche il diritto alla speranza.