Ferrari, vita e mito di un uomo chiamato Drake
Era tormentato dai fantasmi, minacciato (non a torto) arma in pugno dalla moglie, sommerso dai debiti, denigrato dai giornali: e tutte le mattine le passava in lacrime davanti alla tomba del figlio morto. Un cinico, ossessionato dal trionfo, umanamente discutibile: ma pur sempre un mito. Forse anche perché conosceva bene e da vicino «la terribile gioia», quella passione letale che, nella curva del tempo, non ti fa alzare il piede dall'acceleratore, ti fa scordare del freno: che vincere, se non lo sai, è anche un po' morire.
Proprio lui, il commendatore, l'ingegnere, quello che gli inglesi chiamavano «Drake»: Enzo Ferrari da Modena, genio visionario e ferocemente tenace così come lo racconta, in un ritratto intimo e fuori dalla leggenda, Michael Mann che sullo schermo porta il suo progetto più sofferto (ci pensava da più di 20 anni: nel frattempo è morto il co-sceneggiatore e il protagonista è cambiato tre volte), allontanandosi dal biopic più convenzionale (nascita, morte ed eventuali miracoli) per concentrarsi invece su un anno cruciale per il patron del Cavallino, il 1957.
Ferrari ha appena sepolto il figlio Dino, ne ha un altro (Piero) fuori dal matrimonio di cui la moglie (e socia) non sospetta l'esistenza e i conti dell'azienda sono in rosso; per rilanciarsi - e trovare capitali freschi - è convinto ci sia una sola strada: vincere la Mille Miglia.
La liturgia (e la maledizione) della velocità, ma anche la grande tragedia dell'ambizione, in questo «Ferrari» all'americana (ma girato in Emilia) che flirta con la tradizione del melodramma italico per raccontare la figura «bigger than life» di un uomo che non voleva mai arrivare secondo, dalla vita di corsa segnata dai lutti, fenomeno senza pari capace di fare aspettare un re ma, come Saturno, anche di «divorare» i suoi figli e i suoi piloti.
Nel ruggito di bolidi di un'altra epoca, nella loro linea futurista, Mann si mette alla guida di un film sin troppo classico e afflitto da fictionite acuta (l'Italia da sceneggiato è sempre dietro l'angolo) ma anche adrenalinico e emozionante nelle sequenze (montate benissimo da Pietro Scalia) delle gare, costruendo un ritratto vivo (complice anche l'interpretazione di Adam Driver, subentrato a Christian Bale e a Hugh Jackman) di un uomo che non conosceva la retromarcia.
The last duel: Ridley Scott e "il duello di Dio"
Guardi «The last duel» e pensi che abbia tutti gli ingredienti del filmone virile: guerrieri con tanto di armatura, battaglie tra fango e sangue, migliori amici che si scoprono peggiori rivali. Eppure. Eppure, nella logica consueta degli sfidanti, è il personaggio terzo quello a contare davvero, a uscire con forza (e strazio) dallo schermo, a farsi motore della Storia: una donna. E' facile pensare che quel vecchio volpone di Ridley Scott strizzi l'occhio al #metoo: può darsi, ci sta. Ma sarebbe ingiusto non ricordare che il grande regista di «Blade runner» aveva già in tempi non sospetti (anno domini 1979) aggiornato profondamente l'archetipo dell'eroe grazie alla sua Ripley la coraggiosa (androgina finché volete...), astronauta di «Alien», per poi, dimostrare nuovamente una predilezione per i personaggi femminili determinati, emancipati e forti con «Thelma e Louise» e «Soldato Jane». In attesa ovviamente del suo ritratto di Lady Gucci... E così, per quanto sia dannatamente anni '80, il suo nuovo film - scritto dagli amiconi Matt Damon e Ben Affleck (anche interpreti) insieme a Nicole Holofcener - funziona, arrivando, in modo efficace e energico, al suo scopo. Ispirato a una vicenda realmente accaduta nella Francia della seconda metà del 1.300, in un'epoca dove il diritto non contava nulla davanti al potere, «The last duel» racconta di Marguerite, una donna che ebbe il coraggio di denunciare l'uomo che l'aveva stuprata. E che negava invece di averlo fatto. Per dirimere la questione - e decidere chi dicesse la verità - Carlo VI, il re folle (qui riprodotto in maniera un po' macchiettistica, a dire il vero), decise che il marito di lei, cavaliere coraggioso, analfabeta e impulsivo, e l'accusato, scudiero seducente amante delle lettere e dei festini, si sfidassero a duello, il «duello di Dio»: l'ultimo - legale - nella storia della nazione. Sviluppato il racconto secondo i tre diversi punti di vista dei protagonisti, l'83enne Ridley Scott, oltre che un coinvolgente kolossal in armatura dal super cast (oltre i citati Damon e Affleck, c'è anche il villain Adam Driver e la sorpresa Jodie Comer, l'inglese della serie «Killing Eve», che qui ruba la scena ai più celebri colleghi), finisce col girare un film sulla differente percezione della verità, in cui, per quanto importanti, le sequenze di battaglia (montate forsennatamente e realizzate con grande maestria dal regista de «Il gladiatore») contano decisamente meno della riflessione sulla condizione femminile e su pregiudizi che hanno resistito a secoli di Storia.
La truffa dei Logan, l'Ocean's eleven degli sfigati
Nell'America che ha votato Trump, sulle note di John Denver, dove sui pick up girano ancora le musicassette, le bimbe partecipano ai concorsi di bellezza, i pantaloni delle signorine sono corti e le unghie lunghissime, l'imprevedibile Steven Soderbergh si rimangia (per nostra fortuna) l'idea di un sin troppo precipitoso ritiro tornando al cinema con <La truffa dei Logan>, l'<Ocean's eleven> degli sfigati: una sorta di versione operaia, contadina e bifolca - ma non meno (anzi...) divertente - di quel suo successo assai più dandy e luccicante. Una commedia d'azione che celebra i losers, gettando un occhio all'umorismo dei Coen: scritto con grande disinvoltura, col solito congegno narrativo a doppio fondo caro al regista di <Traffic>, bei momenti surreali (esilarante la rivolta in carcere) e un senso felice del paradosso, <La truffa dei Logan> è un heist movie che lavora sul genere, tra criminali da strapazzo, auto veloci e <maledizioni>.
Uno sguardo ironico e per nulla accusatorio a un'America fonda, dove sopravvive senza frizzi e lazzi un'umanità male in arnese: come i fratelli Logan, uno mezzo zoppo, l'altro con un braccio finto perché quello vero lo ha lasciato in Iraq. La jella li perseguita, ma, ormai al verde, progettano il colpo grosso...
Tatuaggi, soldi, stivali, piloti new age, anziane signore che guidano macchine viola coordinate con l'abito: rocambolesco e divertente, il film arruola nella sua armata Brancaleone un cast super cool: da Channing Tatum a Adam Driver, passando per un ossigenato Daniel Craig e per la scoperta Riley Keough, 28enne in ascesa che forse sogna di diventare più famosa del nonno Elvis Presley.
The sound of Silence: l'ultima tentazione di Scorsese
<E' stato nel silenzio che ho sentito la Tua voce>.
Mistero della fede: alla fine del mondo dove Cristo muore <per il miserabile e il corrotto> e solo il perdono ha ancora un senso, l'ultima tentazione del prete perduto: tradire se stesso per salvare gli altri. E' fatto di nebbia, fumo e martirio, il kolossal intimo, mistico e spirituale dell'ex seminarista Martin Scorsese che con <Silence> (un progetto che coltivava da ben 26 anni) gira un film che nell'ombra cerca, ostinatamente, la luce. Interrogandosi sul peso terribile del silenzio di Dio, apparentemente sordo alle nostre grida sull'ingrata madre terra dove il debole non ha posto e insegue una promessa di salvezza misurandosi con la tortura del dubbio.
Atto conclusivo della trilogia sulla fede (quella iniziata con <L'ultima tentazione di Cristo> e proseguita con <Kundun>), il film con cui il regista di <Taxi driver> e <Toro scatenato> festeggia mezzo secolo di cinema cerca risposte che nessuno può dare, tra sacrifici massimi e scelte umane troppo umane, immolandosi all'inimmaginabile sofferenza dell'imperscrutabile.
Anno domini 1633: due giovani gesuiti portoghesi (interpretati dallo Spider Man Andrew Garfield e da Adam Driver, sugli schermi anche con <Paterson>) partono, per cercare il loro mentore, alla volta del Giappone, dove il cristianesimo è messo al bando e i suoi seguaci uccisi in modo atroce se non rinnegano Dio...
Profondo, tormentato, sussurrato, affamato di verità (là dove non ci si può permettere alcuna certezza), <Silence> è il film in un certo senso apostata di un grande regista che, accantonato lo stile eccitato e caleidoscopio di <The wolf of Wall Street>, sposa un rigore solenne e riflessivo per cogliere - prima usando benissimo i grandi spazi, poi rinchiudendosi nella cella dell'anima – la profondità di una fede che è insieme condanna e liberazione, prevaricazione (nel modo in cui tenta di imporsi senza rispetto della cultura altrui) e supplizio (le persecuzioni di ieri che assomigliano a quelle di oggi), egoismo ed esempio, chiave per perdersi e ritrovarsi. E se è vero che lo Scorsese religioso non è quello che preferiamo, è indubbio che <Silence> (a cui il doppiaggio non rende giustizia) gronda di passione, crudeltà, potenza. Tortuoso e ambiguo e mai netto, mai facile: come la strada che porta alla croce. Non solo quella che ognuno ha in spalla: ma anche l'altra, simbolo di appartenenza e consolazione, che mani grandi e non più tremanti stringono fino a farne rifugio, riparo, scrigno, santuario.
Paterson, l'anima pura delle piccole cose
<Sono solo parole scritte sull'acqua>.
E invece no: perché se la poesia non può salvare il mondo, certamente può farcelo accettare. E, qualche volta, persino renderlo un posto migliore. Ci sono film che hanno una bella faccia, altri che mostrano i muscoli: questo ha un animo puro. E un cuore che batte sottovoce. E il volto strampalato e rockettaro di Jim Jarmusch, che ci regala uno dei suoi personaggi più belli e serenamente intensi: l'autista-poeta di un bus che si chiama come la città dove vive - Paterson - e che, tra una pausa e l'altra del suo viaggio esistenziale, compone versi portando con sè oltre alla foto della moglie il ritratto di Dante Alighieri...
Fatto di piccoli dettagli e di altrettanto minimi trionfi e cadute, <Paterson> è il film empatico e introspettivo, delicato come una carezza, pesante quanto una goccia di pioggia che scivola sui capelli di una bimba, con cui il regista di <Ghost dog> e <Dead man> porta il suo cinema stralunato e il suo realismo romantico nella città natale di William Carlos Williams (gran bella riscoperta) e di Allan Ginsberg (ma anche di Gianni e Pinotto), la stessa dove l'anarchico Gaetano Bresci maturò l'idea di uccidere il re d'Italia.
E' qui che con calviniana leggerezza (e filosofia orientale) Jarmusch segue una settimana nella vita, monotona eppure sommessamente felice, di un giovane conducente dell'autobus (Adam Driver, il cattivo dell'ultimo <Star Wars>, che fa un gran lavoro di sottrazione) amante della poesia e allergico agli smartphone: il risveglio (sempre ripreso dall'alto) insieme a una moglie che ogni giorno si cuce addosso un sogno diverso (dalla pasticciera specializzata in cupcakes alla cantante country), il giro in bus, la sosta serale al pub. Tra colleghi che vedono sempre il bicchiere mezzo vuoto, baristi che sfidano a scacchi se stessi, rapper che cercano le rime in una lavanderia a gettone, innamorati infelici che minacciano il suicidio con una pistola finta, vecchi film in bianco e nero. E un impagabile e gelosissimo bulldog...
Nella poesia della normalità, i pensieri diventano versi e i versi parole: scritte sullo schermo, capaci di accendere spie, come <un fiammifero sobrio e furioso pronto a prendere fuoco>. Tra delusione e speranza, strani incontri e dialoghi (come sempre nel cinema del regista americano) felicemente fuori schema: e l'ironia bizzarra di chi sa che solo i grandi sanno raccontare le piccole cose.