Fury: la sporca guerra del sergente Brad
<Il diavolo ha cura dei suoi>.
E' una casa con i cingoli e un cannone pronto a fare fuoco, il carrarmato: un buco di mondo nel fango che siamo, che calpesta giorni e illusioni, avanzando inesorabile verso il nulla. C'è più sfinimento che onore, più orrore che ricompensa (o rivincita) in <Fury>, il war movie, fisico e brutale, dello spilungone David Ayer, ex sommergibilista prestato al cinema (sua la sceneggiatura del primo <Fast and Furious>) virile. E' un film di sopravvissuti, di gente che ha smarrito (ma forse non per sempre) la propria umanità, il suo: che parte nell'epica di nebbie e cavalli bianchi, ma in realtà è un rude e stridente romanzo di formazione, una crudele iniziazione al dolore nella scuola dell'odiare e del resistere, dell'uccidere e del ricordare.
Là dove è più tangibile e meno sopportabile la claustrofobia etica di spazi anche moralmente angusti, la scoperta dell'inferno da parte del soldato Norman (l'emergente Logan Lerman di <Noi siamo infinito> e <Percy Jackson>), recluta chiamata a rimpiazzare lo sparatutto di un tank americano al comando del sergente, padre padrone, Don Collier (un segnato Brad Pitt), nella Germania, devastata e feroce, del '45. Combat film dai tanti padri (c'è molto di <Salvate il soldato Ryan>, ma qualcosa anche di <Platoon>), che fatica a reggere il paragone con una pellicola radicale e definitiva per quanto riguarda la storia (anche quella con la esse maiuscola) vista dall'interno di un carrarmato come <Lebanon>, <Fury> è comunque un solido esempio di cinema bellico, un po' piatto nella costruzione narrativa (già vista) e nella definizione dei personaggi (stereotipati, o tradizionali), ma spesso <fastidioso> (il pranzo a casa delle due tedesche) che è sempre un buon segno. Certo, tra pallottole, mortai e versetti della Bibbia, Ayer va sul sicuro e, immersa la sua guerra in un fotografia vintage tra il marrone e il verde marcio, si affida ad archetipi sin troppo immutabili del genere (il pivellino, il sacrificio, la stravagante <famiglia> dei brothers in arms), lasciando che la patina hollywoodiana tolga un po' di verità alla disperazione del contesto. La crudezza del racconto non cerca però alibi e in quell'epoca in necrosi dove Dio ha fatto apparentemente perdere le sue tracce, Ayer trova un ragione per vivere e morire.