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Mission: Impossible, countdown finale

«The end is coming».

O forse no: che sia la fine, come si dice, della saga (vero che Tom Cruise ha compiuto 62 anni, ma ce lo vedete Ethan Hunt in prepensionamento?) oppure invece solo un modo per trasformarla in qualcosa d'altro, il brand «Mission: Impossible», fortunatissimo e dall'impatto globale, non smette di funzionare, mettendo sul piatto un mix sempre avvincente di azione, spy story, hi-tech, ironia e gioco di squadra.

In ballo c'è - of course - la sopravvivenza del genere umano, solo che stavolta il nemico non è il solito pazzo scriteriato o il villain del Bond di turno. Ma un'entità: una sorta di anti Dio in cui non è difficile riconoscere una nefasta evoluzione dell'Intelligenza Artificiale. Una mente malvagia e immateriale che punta alla catastrofe nucleare: che solo Ethan e la sua squadra di fedelissimi può tentare di scongiurare.

Chiaramente ne vedremo di tutti i colori: forte di una sospensione dell'incredulità che dura quasi tre ore e di un montaggio cinetico che non permette di annoiarsi (anche se nella sequenza del sommergibile il regista McQuarrie non avrebbe fatto male ad usare l'arma segreta: le forbici), «Mission: Impossible-The Final Reckoning», partito con un omaggio al franchise che vale un po' anche da recap, si conferma una baracconata divertente, un blockbuster giramondo (da Londra all'Austria, dal Mare di Bering al Sudafrica) capace di giocare, trovandosi a suo agio, in qualunque elemento - cielo, terra e acqua (e ovviamente fuoco: a volontà) - con una serie di colpi di scena e imprevisti che si susseguono a ciclo continuo.

Tutto è molto «ultra», ma non mancano i messaggi - nemmeno troppo sottotraccia - alla complessità del presente: dall'incubo nucleare tornato prepotentemente d'attualità agli echi di guerra fredda (anzi gelida, visto che l'incontro è all'Artico) tra americani e russi, fino ai pericoli - sottostimati - dell'IA. Ma certo se il presidente Usa, come in questo caso, è donna e non Trump è già un bel passo avanti.

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No time to die: l'ultimo giro in giostra di 007

‌‌‌Ci sono due cose che dovete sapere subito sull'ultimo 007: la prima è che si tratta di un film pieno di sorprese, alcune davvero clamorose. La seconda è che non ne scoprirete nessuna leggendo questo articolo: perché Bond appartiene alla cosmogonia del cinema, è sacro. E non si può (e non si deve) spoilerare. Ma di certo va detto che è valsa la pena attendere mille e più rinvii a causa di una pandemia più crudele e arrogante della Spectre: perché l'ultimo giro in giostra di Daniel Craig, per la quinta volta nei panni dell'agente segreto di sua maestà, ha un effetto tellurico capace di rimettere in discussione l'intera saga, di ripensarla da capo. Così come il «Casino royale» del 2006 ha rappresentato il felice e coraggioso restart che ha dato nuova linfa a un personaggio a rischio agonia, «No time to die» chiude il cerchio e cambia in corsa le regole del gioco, non solo portando il nostro amico James a una dimensione più sentimentale, quasi familista, ma riscrivendo, fatti salvi, of course, smoking d'ordinanza e Vodka Martini agitati e non mescolati, i codici narrativi e il destino di un eroe chic che da quasi 60 anni ha la licenza di uccidere e di farci divertire. E allora giù come i pazzi tra i Sassi di Matera, sparando a qualunque cosa si muova nella Cuba post Fidel, oppure fingendo di annoiarsi in un buen retiro targato Giamaica: là dove il «passato non è morto» è sempre più difficile immaginarsi anche un futuro. Ci prova Cary Fukunaga (quello del primo, bellissimo, «True detective»), primo americano a dirigere un film della saga ufficiale (giunta al 25° episodio) che immagina uno 007 in «pensione» e lontano dai guai: peccato siano a loro che lo vengano a cercare. In ballo c'è un'arma di distruzione di massa, un virus subdolo (allegria...) che può condannare l'umanità alla morte o (il contatto è letale...) alla solitudine: per Bond è tempo di rimettersi in gioco. Girl power, depistaggi, fuori strada e altrettanti fuori programma: dopo una prima parte a tutta action, «No time to die» scala un paio di marce e sulle note roche di Billie Eilish coglie fragilità e amarezza di un mondo costretto al ridimensionamento. Riesumata la nostalgia, non c'è addio facile da dare: e se il cattivo stavolta non è particolarmente all'altezza (Rami Malek, il Freddie Mercury del film sui Queen) e il regista patina in maniera sin troppo accentuata le sequenze sentimentali, pazienza. «E' una bella vita, non è vero?». «La migliore».

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Sean Connery, il primo e l'unico

‌‌‌È stato il primo: ma, per tutti, anche l'unico. Non perché gli altri, quelli che sono venuti dopo, non fossero bravi, affascinanti, dotati di charme e ironia. Ma perché solo lui era lui: il suo nome era Connery, Sean Connery. C'è un solo Bond, anche se ce ne sono tanti: e lo ha interpretato questo signore qui, scozzese purosangue, figlio di una cameriera e di un camionista, che all'epoca di indossare lo smoking di quello che sarebbe diventato l'agente segreto più famoso del mondo stava già cominciando a perdere i capelli. Ma nemmeno il più lesto dei parrucchini può scalfire il mito di questo gigante del cinema, fiero delle sue due lauree ad honorem, lui che aveva abbandonato la scuola a 13 anni e si era arruolato in Marina. Uno che per campare nella vita aveva fatto tutto, persino lucidato le bare, oltre che il bagnino, il muratore e i concorsi di bellezza. Poi l'incontro con la recitazione: qualche parte in tv ed è subito Bond. Che lui, a dire il vero, all'inizio nemmeno ci andava pazzo per quell'irresistibile spia con la licenza di uccidere. Ma così come Eastwood fu capace di abbandonare il poncho del pistolero senza nome per prendersi sulle spalle il destino del cinema americano, Connery dimostrò da subito di potere essere moltissimo altro rispetto al personaggio che gli diede fama planetaria. Non a caso lo scelse anche Hitchcock: il film era «Marnie». L'attrice protagonista, Tippi Hedren, si lamentava di continuo col regista: come poteva fingersi frigida come il ruolo richiedeva davanti a un pezzo d'uomo come quello? L'aneddoto fa sorridere: ma non c'è dubbio che Connery, nel corso della sua carriera, ha riscritto una nuova concezione di virilità. Non a caso nell'89, quando non è già più un ragazzino i lettori di «People» lo eleggono «l'uomo più sexy del mondo». Merito non solo del metro e 88 di altezza e della forma sempre perfetta: ma di un carisma naturale, un fascino non artefatto e immediatamente empatico che lo rendeva credibile sia nei panni di uno stanco ma romantico Robin Hood che in quelli di un avventuriero che volle farsi re. Mai sopra le righe, mai una spanna oltre o al di sotto: ma sempre a misura, esatto, perfetto. Pensate al poliziotto (da Oscar) de «Gli Intoccabili», ma anche al comandante di «Caccia a Ottobre Rosso», con la barba già da patriarca che accompagnerà l'ultima parte della sua carriera, ma anche al magnifico Ramirez di «Highlander», allo scrittore di «Scoprendo Forrester», al monaco de «Il nome della rosa» o al papà (che grande idea Spielberg...) di Indiana Jones: se c'era Sean, se il suo nome era sul manifesto, potevi stare tranquillo. Era un marchio di qualità: per quanto fosse alta l'asticella, Connery il risultato lo portava sempre a casa. Non era né genio né sregolatezza: ma l'uomo giusto al posto giusto. Quello che avremmo sempre voluto essere noi.

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Spectre: ovvero 007 e l'irresistibile tentazione della normalità

«Dicono che sei finito». «E tu che ne pensi?». «Secondo me hai appena cominciato».
Non possiamo non dirci bondiani: e non solo perché a ogni aperitivo invece di un banalissimo spritz abbiamo sempre la tentazione di ordinare un Vodka Martini, «agitato, non mescolato»; oppure perché sono anni che sogniamo di fare capitolare la Bellucci al primo sguardo e salutarla (chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato...) la mattina dopo. Ma perché 007, al secolo Bond James Bond, è un'icona assoluta, un'istituzione british ma ormai globale, un brand forte e conosciuto quanto la Coca Cola: qualcosa di insostituibile e che non passa mai di moda, come i souvenir parigini a forma di Torre Eiffel o gli anolini per Natale. E se alla vigilia delle nozze d'argento con il cinema (siamo al capitolo 24) qualcuno pensa di potere pensionare il mito si sbaglia di grosso: anche se il Bond di Mendes (già, proprio lui: il regista di «American beauty» e «Revolutionary road») è molto umano e ci piace per questo. E all'ossessione adrenalinica di salvare tutto e tutti stavolta contrappone l'irresistibile tentazione della normalità.
Tempus fugit, corri James: fisico, aereo (che spettacolo le sequenze in elicottero), agonistico, «Spectre» fa resuscitare i morti, ma mentre il passato torna, il futuro preoccupa. Gli agenti doppio zero potrebbero infatti avere i giorni contati: il governo pensa non ci sia più bisogno di loro. E intanto, un'organizzazione segreta e maligna, la Spectre appunto (guidata da un Christoph Waltz che altrove è stato anche più cattivo di così), scatena il caos...
Girato in pellicola, con un bellissimo piano sequenza di apertura (che poi è la firma dei buoni veri), il nuovo 007, divertente e felicemente antisalutistico (la bibita vegana? Bevitela tu), seppure non sia all'altezza di «Skyfall» (e l'intreccio assomigli pericolosamente all'ultimo «Mission: impossible»), sa terribilmente il fatto suo ed esalta l'abituale mix di ironia, eleganza (garantisce Tom Ford) e azione con un confronto degno di Caino e Abele. Emerge il privato e nel solito giro del mondo all inclusive (da Città del Messico a Londra, dall'Austria al Marocco) c'è un posto di rilievo anche per Roma: dove Bond-Daniel Craig interroga la Bellucci mentre la spoglia (è 007, vuoi che non sappia fare due cose contemporaneamente?) ed è protagonista di un clamoroso inseguimento tra il Vaticano e il Lungotevere. In una notte in cui nella capitale tutto è possibile: anche trovare, con l'aiuto dell'agente segreto più famoso del mondo, persino un parcheggio.

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Christopher Lee, l'immortale Dracula che aveva sangue emiliano

«Non mi fermerò mai fino al giorno in cui mi dovrò fermare: è una questione di sopravvivenza».

Ho incontrato Christopher Lee una volta sola: era il 2009, a Roma. Lo vedevi e non potevi non portagli rispetto: un po' per la riconoscenza che si deve alle leggende, un po' perché era troppo colto - e saggio - per non volergli bene. Allora non sapevo che nelle vene del vampiro più famoso dello schermo scorreva sangue reggiano: sua madre faceva Carandini di cognome e i suoi antenati venivano da Casina, meno di 5.000 anime lassù sull'Appennino. Altissimo (un metro e 96 centimetri portati con grande signorilità), la lunga barba bianca, questo gentiluomo londinese che diede dignità cinefila a quelli che una volta chiamavano b-movie, non sprecava una parola: ha girato oltre 280 film e ne avrebbe fatti altrettanti se la morte non fosse venuta a reclamare l'altro giorno al sua pellaccia dura. A Roma portò Triage, film per nulla fortunato sui traumi della guerra che però gli diede la possibilità di parlare un po' di sè: non tanto del divo né dell'attore, ma di un uomo che una volta, in un secolo passato era stato pure un soldato. <So bene cos’è la guerra: l’ho fatta per 5 anni senza mai tornare un giorno a casa. Cosa facevo? Per la maggior parte del tempo provavo a non farmi ammazzare. Due anni li ho passati anche in Italia: mi ricordo il vento e il fango, l’inverno sulla costa adriatica. Una volta finita, nel ’46, ho indagato sui crimini di guerra: è stato anche peggio della guerra stessa. Una guerra terribile: tutte le sono, d’altra parte. E alla fine sono soprattutto  una questione politica>. Disse così, tenendo sulla platea quel suo sguardo magnetico, dove c'era spazio però per un'imprevedibile tenerezza. Era un maestro, ma non si atteggiava a tale, anzi: <Non mi permetterei mai di dare consigli a un giovane attore: ognuno deve imparare da sé, anche se a volte è molto dura>. Lui era partito dal basso, dalla gavetta: anche se la nonna era una famosa cantante lirica, la madre una donna bellissima amata dagli artisti, il patrigno lo zio di Ian Fleming, l'inventore di James Bond. Parlava otto lingue e nella sua vita avventurosa incontrò anche Tolkien: se ricorderà molti anni dopo indossando le vesti di Saruman, lo stregone de <Il signore degli anelli>. Il conte Dracula gli diede notorietà planetaria, ma non gli piaceva rammentare troppo quel ruolo, non voleva fermarsi lì: tanto che moltisimi dei grandi lo hanno voluto. Da Spielberg a Tim Burton, da Billy Wilder a Peter Jackson. Persino la saga di <Guerre stellari> lo volle imbarcare. E Scorsese, in <Hugo Cabret>, ne rivelò probabilmente la vera natura: un uomo serio, che agli occhi di un bimbo poteva apparire minaccioso, ma in realtà dolcissimo, amabile. E immortale, proprio come il suo personaggio più famoso.

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