Mr. Long, una lama nel cuore: il killer e l'alfabeto silenzioso del cibo
Non so se Sabu sia un fan di David Mamet, ma di sicuro conosce bene una delle teorie più famose del commediografo americano: quella sugli usi del coltello. Che è fatto - specie nell'iconografia cinematografica - per uccidere, ovvio: ma anche per accarezzare, con lama gentile, cipolle destinate a insaporire una zuppa che scalda il cuore. C'è il cibo come guarigione e riscatto in <Mr. Long>, ponte tra culture capace di superare barriere non solo linguistiche, alfabeto silenzioso in cui riconoscere un idioma (sentimentale) comune, condiviso: motore di una storia che, svuotate le parole, incide col pugnale ritagli di (im)possibile felicità, nel solidale sedersi alla stessa tavola dove, come nella canzone di De Andrè, si spezza il pane anche per l'assassino. E' un bel film questo del 53enne regista giapponese, che cucina un soggetto originale con ingredienti non inediti, offrendo un contributo personale ai codici del crime all'orientale nel seguire, dopo un prologo acido e notturno, la parabola di un killer taiwanese in trasferta in Giappone: gravemente ferito, in fuga in una baraccopoli, l'uomo viene aiutato da un bimbo, figlio di una tossicodipendente, e dai vicini (una sorta di coro comico nella tragedia) che non sanno nulla di lui ma vengono conquistati dal suo talento ai fornelli...
Ci sono echi di <Ghost dog>, di <History of violence>, del miglior Kitano: ma, soprattutto, movimenti calibrati che sanno diventare repentini e coreografici nel momento delle esecuzioni, la capacità di uscire da confini già segnati (bello e inatteso il flashback centrale, che sposta improvvisamente l'attenzione sul personaggio femminile), l'amarezza di un <eroe> che si tiene tutto dentro. E' una coincidenza, certo, ma non un caso se i due migliori film in sala in questo momento (l'altro è <Un affare di famiglia>) provengono dal Giappone: è radiosa l'alba del Sol Levante.