I figli del fiume giallo: la Cina è lontana (da se stessa)
E’ il Paese che negli ultimi 15-20 anni è cambiato di più: e in modo più traumatico. Lasciando dietro di sé <morti e feriti>, e dubbi, e fratture, e crepe. Una rivoluzione solo apparentemente non violenta, quella cinese, che è alla base dell’intero cinema del grande Jia Zhangke, il maestro della sesta generazione, che con film come <Still life> (Leone d’oro a Venezia) e <A touch of sin> ha fatto esplodere le contraddizioni di una nazione che brucia tutto troppo in fretta.
Un tema centrale anche ne <I figli del fiume giallo> che il regista, disilluso cantore della contemporaneità, ha portato un anno fa in concorso a Cannes: un film intenso dove la delusione e l’amarezza (non solo) sentimentale di una donna abbandonata dall’uomo a cui ha salvato la vita facendosi al suo posto 5 anni di prigione, va di pari passo con il suo disorientamento davanti a una Cina che, entrata in maniera rapidissima nella modernità, fatica ormai a riconoscere. Le miniere che chiudono e lasciano il posto alle centrali elettriche, la speculazione edilizia, gli iPhone che arrivano a mappare anche la più profonda campagna: girato molto bene, con punti di vista mai scontati, mai banali, <I figli del Fiume Giallo> inizia come un gangster movie e finisce come un melodramma, nel continuo prendersi e lasciarsi di un terzo millennio che ha mutato per sempre le regole del gioco. Quelle che Zhangke (suo anche <Mountains may depart>, commovente capolavoro) dimostra di conoscere, tra un prologo in 4/3 e i Village People sparati a tutto volume, benissimo: lasciando che i fragili ma ostinati destini dei suoi protagonisti (lei è la sua musa Zhao Tao, bravissima) restino schiacciati tra le pieghe di un Paese in pieno mutamento economico e morale.