Civil War, gli Stati disuniti d'America
Giureresti che è stato concepito nella furia delle immagini dell’assalto al Campidoglio, di quella vergogna in mondovisione, e invece l’idea è di qualche mese prima: ma è figlio di quell’aria lì, «Civil War», di un tempo arrabbiato e divisivo, dell’epoca folle dell’odio, della protesta, del manganello. Se il film di Alex Garland - inglese pratico di scenari inquietanti ed estremi (da «28 giorni», di cui ha scritto la sceneggiatura, a «Ex machina») - ha però un pregio è quello di non spiegare niente: ed entrare a gamba tesa nella storia, senza prologhi, didascalie, date in calce. Senza buoni né cattivi, o forse solo questi ultimi, né uniformi di un colore diverso: perché «qualcuno vuole ucciderci e noi vogliamo uccidere loro». Punto. E - forse - a capo.
Così, partendo (quasi) dalla «fine», Garland scatta con realismo fotogiornalistico l’istantanea di un’America in guerra con se stessa, paradiso perduto per sempre, Paese smarrito, colpito e colpevole: e nell’incontro tra war e road movie, lungo le strade desolate degli Stati disuniti d’America, dove fiamme e distruzione si divorano l’umanità (con un che di apocalittico che ricorda, anche per quell’incipit così diretto, «The road» di McCarthy), racconta la morte di una nazione.
In un futuro mai così contemporaneo, una famosa fotografa parte con un collega reporter, un vecchio giornalista e una pivellina alle prime armi in direzione di Washington: vogliono arrivare alla Casa Bianca per intervistare il presidente prima che venga deposto. E’ un viaggio all’inferno: forse lo sanno anche loro. E se non lo sanno se ne accorgeranno presto. Molto crudo (è il pregio più evidente), teso (si porta sempre il pericolo addosso, compagno inseparabile nel mestiere della verità), nell’occhio del ciclone dell’orrore (e dell’horror) della guerra, «Civil War», attraversato dai synth di una colonna sonora nervosa e maleducata (con tanto di chiusa di «Dream baby dream» dei Suicide), stecca però nel fare salire in quel furgone che va verso la capitale personaggi ad alto rischio di stereotipo - dalla grande fotografa cinica e disillusa (una sofferta Kirsten Dunst) all’anziano inviato all’ultimo ballo, passando per la ragazzina entusiasta e impacciata (Cailee Spaeny, la «Priscilla» premiata a Venezia) che vuole vedere il Male negli occhi -, la cui personalità ed evoluzione (così come anche la riflessione sull’etica e sui limiti dell’immagine) è peraltro piuttosto prevedibile.
Ma il film, d’altro canto, si dimostra solido e credibile nelle sequenze d’azione e se è vero che Garland si pavoneggia un po’ nei ralenti, quel suo realismo politico, spietato e dissonante, di un mondo alla fine, quella furiosa deriva a portata di Nikon, è la traccia di un talento inquieto che si discosta sempre dalla via maestra per seguire strade più accidentate e meno battute, nella speranza che il monito non si trasformi in profezia.