La ragione per cui adoro <2001> è che mi frega sempre. Con l’Odissea di Kubrick è così: non si può vincere. Perché non è simile (nemmeno lontanamente) a nulla che puoi vedere adesso. Ma nemmeno a niente di quello che hai già visto prima. Perché, nonostante sia uscito la prima volta nelle sale 50 anni fa, non appartiene al passato né tantomeno (nonostante ieri e oggi sia tornata nella versione restaurata e rimasterizzata, nei cinema) al presente: <2001: Odissea nello spazio> appartiene solo al futuro. Là da dove proviene, là dove, costantemente, insistentemente, sembra sempre proiettarsi, rivolgersi. Come se fosse un film che non è ancora stato fatto: un film che non esiste, se non nel ricordo sbiadito di qualcosa che non è mai accaduto. Come e più di <Shining>, <2001> ha su di noi un potere oscuro, un potere mistico, segreto: qualcosa che va al di là di una carica ipnotica inspiegabile eppure evidente sin dalle primissime sequenze, che va oltre a un prologo grandioso, a un finale <irraggiungibile>. <2001> non è solo il film più audace di Stanley Kubrick, ma probabilmente anche quello più moderno. Moderno, e tuttora inedito se mai è possibile in quanto imitatissimo (ma inimitabile), nella struttura del racconto, nella scelta dell'inquadratura, nel rivoluzionario sguardo sinfonico con cui il geniale regista riscrive le regole del genere: girando, un anno prima che l'uomo sbarchi sulla Luna (ma c'è una famosa e assurda tesi complottista che dice che in realtà fu proprio Kubrick a girare il falso allunaggio...), <il film definitivo di fantascienza>.
Un capolavoro assoluto che non anticipa una nuova visione: ma semplicemente la crea. Il regista sapeva che non esistevano lenti e macchine in grado di imprimere sulla pellicola i suoi concetti visionari: e così, invece di accontentarsi di ciò che la tecnica proponeva in quel momento, fece in modo che venissero prodotte appositamente per il film. Inventò cioè gli strumenti che potessero rendere possibile e tangibile il suo pensiero: che potessero dare forma a quella idea di cinema che nessuna macchina da presa era allora capace di <imprigionare>. Ha ragione Christopher Nolan, il grande autore di <Interstellar> e <Dunkirk>, che lo scorso mese ha presentato la versione rimessa a lucido di <2001> al Festival di Cannes: <Questo è un film che ha cambiato il cinema e spalancato una finestra per tutti i registi che sarebbero venuti dopo. Perché in fondo i limiti non sono reali, esiste soltanto la nostra immaginazione>.
E' dannatamente vero: preso in prestito un raccontino poco conosciuto dello scrittore inglese Arthur C. Clarke – che dopo ogni seduta di sceneggiatura con il regista newyorchese doveva andare a stendersi
perché gli girava vorticosamente la testa -, Kubrick lo trasforma in un oggetto cinematografico irripetibile: un'esperienza visiva, che, sono parole sue, capace di penetrare col suo contenuto emozionale e filosofico il subconscio dello spettatore. L'osso scagliato in cielo dalla scimmia diventa astronave, l'uomo supera lo stadio <bestiale> grazie alla tecnologia, ma progredisce (e si fa superuomo) solo liberandosi di essa, affrontando il computer ammutinato per spegnerlo, per <ucciderlo>. Quello che in Clarke era semplicemente una lotta uomo/macchina – ma lo scrittore negò che il nome del computer di bordo, Hal 9000, fosse una malevola citazione (che lettere ci sono nell'alfabeto dopo l'acca, la a e la elle?) della Ibm -, con Kubrick diventa saggio filosofico sull'evoluzione, su Dio, sul mistero. Il famoso monolite nero – alieno e non identificato – che è alla base del film altro non è che lo stesso regista, il suo carisma, il suo impenetrabile talento. Lo stesso che lo convince ad affidare le musiche della pellicola ad Alex North (il compositore di <Spartacus>) e poi a non utilizzarne nemmeno una nota: a forza di chiedergli <qualcosa di classico> Kubrick decise di servirsi di musica già esistente. Strauss, ad esempio: nacque così, il valzer delle astronavi, una delle sequenze più affascinanti di tutti i tempi. Aneddoti che sono leggende: e che ora che l'attore protagonista, Keir Dullea, assomiglia davvero a quel se stesso vecchio che incontra nel film, accompagnano con nuova profondità l'angoscia di un computer umano troppo umano che nel giro girotondo di una filastrocca mandata a memoria ha ancora il tempo di ammettere di avere paura di morire.