L'albero di Ceylan: i frutti selvatici del grande cinema
Il morso di una ragazza che avevi dimenticato quanto era bella, un pozzo senz’acqua, una famiglia che aspetta che sia troppo tardi: hanno un peso, una forma, un senso anche i silenzi nel cinema saggio, pieno di dialoghi fondi, privato eppure politico, di Nuri Blige Ceylan. Che gira con <L'albero dei frutti selvatici> un altro bellissimo film che ha il passo dei grandi romanzi russi (come non pensare a Cechov, da sempre principale riferimento letterario dell'autore de <Il regno d'inverno>?), ma guarda alle contraddizioni attuali e allo stallo di un Paese, la Turchia, dove <la verità non è sempre popolare>. La storia di Sinan, aspirante scrittore, che, una volta laureato, torna nella città di origine: sogna di pubblicare il primo romanzo, ma alla fine è il <suo>, quello della sua vita, che il film scriverà...
Il rapporto col padre, prof che si è giocato tutto ai cavalli, l’eredità della Storia, l’accettazione - dopo lunga (in)sofferenza - di sè. Lungo oltre tre ore, impegnativo ma ispiratissimo, <L'albero dei frutti selvatici> è fitto di incontri (splendido quello con la ragazza per cui in fondo hai sempre provato qualcosa, ma, implacabili, complici l'insistenza e talvolta l'arroganza del protagonista, anche quelli con lo scrittore affermato e l'imam) e attraversato, lacerato, da scontri generazionali, da conflitti interiori, da illusioni ostinate, da fili invisibili che ci collegano tutti, là dove nessuno è senza peccato.
Un film votato al mistero: di un albero, della vita. Che Ceylan non smette di cercare: scavando anche quando tutti dicono che è inutile.