Mary e lo spirito di mezzanotte: l’abbraccio tra tenerezza e commozione

«Com’è il film di d’Alò?”. “Bello! Ho pianto tutto il tempo» (tratto da una conversazione realmente avvenuta). Non vi spaventate: però sì, vi commuoverete. Più voi dei vostri figli e nipoti, ma non meno degli altri adulti che troverete in sala. Perché «Mary e lo spirito di mezzanotte» fa questo effetto: tocca nel profondo, si avventura nel luogo segreto dove conserviamo memoria di chi abbiamo perduto, accoglie con la tenerezza di un abbraccio anche il rimpianto. E stringe, stringe forte, là dove la morte non è il buio tunnel dell’addio, ma parte della vita, non più tabù ma approdo necessario e inevitabile, dolore da accettare in quanto chi se ne è andato sopravvive nei nostri ricordi, nei sapori di casa, nelle linee comuni di una lunga storia chiamata famiglia.

Dopo Collodi («Pinocchio»), Rodari («La freccia azzurra») e Sepulveda («La gabbianella e il gatto»), il re dell’animazione all’italiana porta sullo schermo un romanzo dell’irlandese Roddy Doyle (quello di «The commitments» e di «The snapper»), regalandogli anche uno splendido cameo: e nella storia di una ragazzina di undici anni appassionata di cucina che solo la nonna (malata) sembra comprendere appieno, gira una tenera storia al femminile transgenerazionale, esaltata anche dalle matite di Regina Pessoa (che firma gli incubi di Mary) e di Marco Zanoni (i sogni di nonna Emer: magnifici). Candidato ai premi Efa (gli Oscar europei) come miglior film d’animazione dell’anno, «Mary e lo spirito di mezzanotte» osserva il passaggio di testimone tra passato e futuro, affrontando il difficile e scivoloso tema del distacco con levità e delicatezza. Emozionando, nella grazia dell’equilibrio.

Misericordia, l’infinito derviscio dell’esistenza

Gira Arturo, gira: e conta fino a cento in quell'angolo di rudo e di inferno, tra miseria e cuore, rifiuti e umanità. Che nell'infinito derviscio dell'esistenza - atto rivoluzionario di gioia incosciente - «siamo noi la monnezza»: ma se la Natura alza la voce e reclama la sua vendetta, almeno Baglioni canta «Avrai».

Ha un inizio brutale e primitivo, «Misericordia», il nuovo film di Emma Dante che nel degrado e nella violenza trova sprazzi di vera poesia, squarci di un altrove di non scontata ma struggente bellezza. E in in «mondo fuori», contesto quasi mitologico soggiogato della crudeltà di un moderno Polifemo, fa muovere sul palco più ruvido un uomo rimasto bimbo e le sue tre madri, famiglia di fatto che condivide - e si fa carico - di una disperazione anche nostra.Un film sul corpo - anche quello anarchico e libero del protagonista (Simone Zambelli, professione ballerino: bravissimo) in un'astratta Sicilia di schiave -, «Misericordia», impietoso ma tenero nella sua crudezza, in cui la solidarietà femminile è anche un laico riconoscersi tra ultimi: una storia che esce dall'antro teatrale per lasciare che il cinema ne illumini l'arcaico ma contemporaneo squallore. E ne accarezzi, con gratitudine, l'anima.

Anatomia di una caduta, il thriller della coppia e della verità

Basterebbe quell'inizio: con quella musica sparata a mille che non permette nemmeno una normale conversazione, con la voce che si alza - e trema - ma non basta a frenare, e tanto meno a sovrastare, il mai così insostenibile «P.I.M.P.», brano cult del rapper 50 Cent, che invade l'inquadratura, la riempie, la scuote fino all'insofferenza. Basterebbe quella scena - e la curiosa sequenza dei titoli di testa, con le foto degli interpreti da bimbi o ragazzini - per capire che si è aperta la porta del film giusto.

E' notevole sin da subito, «Anatomia di una caduta», la pellicola molto interessante e ben costruita, con cui la francese Justine Triet ha vinto la Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes: un film che la 45enne autrice traveste da dramma processuale per farne in realtà una riflessione ambigua e avvincente sulla dissoluzione di una (o della?) coppia.

Teso e tosto dal principio alla fine (la Triet non lo perde mai di vista, mantenendo alta la guardia per tutta la durata), «Anatomia di una caduta», frutto di una sceneggiatura calibratissima, parte da un mistero da svelare: quello della morte di Samuel, precipitato dal balcone della sua casa immersa nella neve. Si è suicidato o l'ha spinto di sotto la moglie Sandra, una scrittrice tedesca? L'unico che potrebbe sapere qualcosa è il figlioletto della coppia, che però un incidente ha reso anni prima quasi cieco...

Intrigante, intenso, scomodo, capace di giocare intelligentemente con il genere per raccontare molto altro (sulle relazioni interpersonali, sul senso di colpa, sui rapporti di forza), il film, che scaricato dalla Francia nella corsa all'Oscar (la Triet ha probabilmente pagato le critiche al governo francese dopo il trionfo a Cannes), è stato però acclamato negli Usa e potrebbe rientrare nelle nomination dalla porta principale, sfuma il côté hitchcockiano con numerosi svelamenti e continui colpi di scena che cambiano di continuo - in un gioco della verità dove il plastico della casa in tribunale non può non riportare alla memoria la tragedia di Cogne - la percezione dello spettatore nei confronti della protagonista: una bravissima Sandra Hüller, in grado di recitare in tre lingue diverse con la medesima intensità. E riflettere insieme allo spettatore sulla fragilità della verità: che forse è solo quello a cui decidiamo di credere.