Florence, l'inaspettata bellezza di una voce stonata
A Toscanini, che da lei veniva soprattutto a battere cassa, diceva <la sua casa è la mia casa>, mentre il suo club musicale era intitolato a Verdi, di cui conservava gelosamente un bel busto all'ingresso. Perché Florence Foster Jenkins, ricca benefattrice nella New York anni '40, aveva tutto ma proprio tutto per essere una grande cantante d'opera: tranne una bella voce...
Omologo del francese <Marguerite>, film bello e crudele di Xavier Giannoli che racconta in pratica (con qualche falsificazione in più) la stessa storia - ma è più denso e stratificato e ha il merito non piccolo di essere arrivato prima -, <Florence>, diretto dall'inglese Stephen Frears di <The Queen> e <Philomena>, costringe a esibirsi sul palcoscenico delle illusioni un personaggio tragico e meraviglioso, casta diva che provò a colmare una sfacciata mancanza di talento con una passione sconfinata.
Storia incredibile ma vera (e buffa, drammatica, paradossale, dolorosa) della cantante più stonata di sempre, il film di Frears (un po' antico nella messa in scena, con quei dolly vecchia maniera, ma assi brillante nella ricostruzione d'epoca) porta le lancette indietro fino agli anni '40, nella New York upper class dove vive Florence Foster Jenkins, ricca signora follemente innamorata della lirica. Malata di sifilide, con un marito che la tradisce e grazie ai suoi soldi fa la bella vita, ma allo stesso tempo la ama e protegge (foraggiando un pubblico compiacente e bandendo le sue esibizioni ai critici puri e duri...), Florence coltiva velleità da interprete d'opera, unica a non comprendere quanto la sua voce sia invece terribilmente sgradevole...
Candidato a 4 Golden Globes (compreso quello per il miglior film dell'anno, nella sezione musical o commedia), classico e a volte sin troppo caricaturale, ma con un parterre di interpreti di primissimo ordine (non solo la solita gigantesca Meryl Streep, che ha dovuto esercitarsi per mesi per imparare a stonare, ma anche un ritrovato – guardatelo ballare – Hugh Grant), il film riflette, tra acuti che sfidano la forza di gravità (così come il buon senso) e formidabili stecche capaci di scuotere una società ipocrita, sul dramma della mediocrità, celebrando il coraggio non solo inconsapevole di una donna che consegnò se stessa alla musica. Trovando anche nell'errore, nel difetto clamoroso ma commesso con totale sincerità, una forma inaspettata di bellezza, una grazia proibita alla monotonia della perfezione.