E' stata la mano di Dio. E quella di Sorrentino
Ve lo dico subito, perché non mi va di litigare: se non vi piace Sorrentino è un problema vostro. Non mio. Ma comunque la si pensi sul regista de «L'uomo in più» e de «La grande bellezza», nessuno - credo - potrà negare che «E' stata la mano di Dio», con cui il cineasta napoletano si è aggiudicato il Gran premio della giuria alla Mostra del cinema di Venezia e che rappresenterà l'Italia nella corsa agli Oscar, sia il suo film più personale e straziato, più intimo e sincero: un appassionante romanzo di formazione «allegro e doloroso» dove Sorrentino trasfigura la realtà per raccontare la storia che gli sta più a cuore, l'unica da cui non può fuggire: la sua. Ritratto del regista da ragazzo, tenero, drammatico, schietto, magico, ispirato, «E' stata la mano di Dio» (prodotto da Netflix) è «I 400 colpi» (e l'«Amarcord») di un autore che fa i conti con sé affondando lo sguardo nei volti su cui ha costruito, anni dopo, il suo immaginario, rintracciando, in quelle storie e in quelle leggende urbane che dicono tanto, tantissimo di lui, le ragioni e le radici del suo cinema, la grande bellezza, in fieri, solo abbozzata, ma in verità già presente, che riempiva gli occhi di un adolescente timido che non si separava mai dal suo walkman. Uno come Fabietto (Filippo Scotti, molto bravo, premiato a Venezia con il «Mastroianni» per il miglior interprete emergente), liceale al Classico, nessun amico e figurati la ragazza: ma una sola, grande, passione, il Napoli di Maradona. E poi il padre bancario, mamma in vena di scherzi, un fratello più grande e una sorella che non esce mai dal bagno: una famiglia felice, dai molti parenti bizzarri, all'ombra del Vesuvio in quegli eccitanti anni '80. Fino a quando una tragedia assurda cambia tutto... La voce di Fellini, l'incontro con Capuano, la videocassetta di «C'era una volta in America», che non si riusciva mai a vedere: e la zia nuda sulla barca, i vicini di casa, un contrabbandiere con cui confidarsi. Sorrentino intinge nella malinconia la poesia del ricordo (a volte solamente immaginario), ma non sfugge al sorriso, gestendo benissimo i continui cambi di tono, dal comico al tragico e viceversa: e tra la solitudine e la perseveranza, gira un film coraggioso e bellissimo in cui mette dentro i sogni, le ferite, le paure, ma anche le risate di un'età che non c'è più, accompagnando il se stesso ragazzino alla scoperta del cinema e del sesso, là dove gli uomini volano, le donne impazziscono e i genitori se ne vanno. E nella rabbia di sentirsi abbandonato, il regista lavora bene sul grottesco, ci spalanca il cuore col suo modo ampio di girare (la sequenza di apertura, ma anche quella Napoli, notturna e no, a cui Sorrentino dichiara devoto il suo amore), mostra senza sconti lo sfaldamento di corpi felliniani, la loro implacabile verità: confessandosi, infine, nell'apparizione di un Maradona icona quanto il Rex, non al prete del liceo ma bensì al pubblico, la sua vera famiglia. E allora mentre esci ti ricordi le parole che hai letto in calce all'inizio: «Ho fatto quello che ho potuto. Non credo di essere andato così male». Lo ha detto Diego Armando Maradona, santo protettore del regista: che quella stessa frase la potrebbe fare sua e indossare E sì, gli starebbe benissimo.