A Chiara: l'adolescenza sospesa di chi è costretta a crescere in fretta
Cerca la verità, Chiara, là dove la verità è un tabù, una bestemmia, un segreto da custodire. Ma lei non si accontenta delle spiegazioni di facciata, domanda, chiede, vuole sapere. Proprio come il regista che la prende per mano accompagnandola nel suo viaggio di crescita, ben oltre gli stereotipi del romanzo criminale, per cogliere invece l'aspetto più intimo e inedito del rapporto di una figlia costretta a chiedere a suo padre: «Ma tu ammazzi la gente?». E' un cinema che ci riguarda quello del 37enne Jonas Carpignano, che ancora una volta riesce a fare dialogare la fiction (stavolta preponderante) con il vissuto (la famiglia protagonista del film è una vera famiglia: tutti gli interpreti sono attori non professionisti), chiudendo la trilogia di Gioia Tauro raccontando, come in «A Ciambra» (di cui questo lavoro è una sorta di controcampo), l'adolescenza sospesa di chi è costretta a crescere in fretta, divisa tra il rifiuto di un mondo di cui non condivide l'illegalità e il legame, fortissimo e lacerante, con le proprie radici. Costantemente addosso alla sua protagonista, sempre molto dentro alla storia come se la cinepresa fosse anch'essa parte di ciò che invece è chiamata a filmare, girato con largo uso della macchina a mano e di inquadrature «sporche», efficaci nell'azzerare le distanze, nel portare anche chi guarda - un po' alla Kechiche - all'interno dell'inquadratura, «A Chiara» (che a Cannes ha vinto la Quinzaine, bissando il trionfo di «A Ciambra») è la pellicola che conferma il talento senza filtri di Carpignano, la forza del suo neo-neorealismo che sfugge a ogni retorica, che si attiene ai fatti e ai sentimenti, ma la morale, no, non la fa a nessuno. Storia di Chiara, 15enne calabrese che un giorno scopre che il padre è ricercato per traffico di droga: è uomo delle cosche e da un giorno all'altro sparisce di casa. Mentre lei, presa sotto la tutela dei servizi sociali, rischia di dovere lasciare per sempre la sua città e la sua famiglia... Attraversato da una tensione quasi fisica (resa ancora più tangibile dall'ottimo lavoro sul sonoro), a struttura circolare, il film, esaltato dall'informalità del racconto, dalla spontaneità e dall'energia di un cinema che sembra avere fatto sua la lezione zavattiniana traducendola in un contesto moderno e non nostalgico, va, insieme alla sua protagonista (la debuttante Swamy Rotolo, bravissima, che stasera presenterà insieme al regista il film all'Astra), alla scoperta del mondo. Tra figlie stanche di sentirsi dire che sono troppo piccole per capire e padri che tengono il crocifisso sopra il letto nel bunker sotto casa, «A Chiara», dopo un inizio fortissimo (ma quanto è bella la sequenza della festa?), sconta a volte la disomogeneità della recitazione, ma colpisce l'onestà intellettuale di un cinema che non giudica («gli altri la chiamano mafia, noi la chiamiamo sopravvivenza») la consuetudine del male. E nel voltargli le spalle - nel magone del passato - emoziona.