Il prigioniero coreano: la trappola dell'ideologia di un Paese che sono due
Ricordo un giorno a New York, molti anni fa: il tassista ci chiese da dove venivamo. Noi gli ricambiammo la cortesia. Rispose: <Corea>. Fu lì che un amico toccò, senza volere, un tasto dolente: <Quale Corea? Del Nord o del Sud?>. Lui si infuriò: <La Corea è una sola>.
Ecco: se vi interessa capire (e dovrebbe, ve lo assicuro: perché in gioco c'è ben più del destino di due Paesi che sono <uno solo>) qualcosa sull'odio cieco, istituzionalizzato e fratricida che da 70 anni spacca in due una penisola e una civiltà antichissima, bisogna che investiate un paio di ore di un tempo (il vostro) che per una volta non sarà perso. Perché non c'è davvero telegiornale, inchiesta, reportage che ve lo possa spiegare meglio – e in maniera più chiara e onesta – dell'ultima prova, riuscita assai, del grande Kim Ki-duk. Il regista di <Ferro 3> e <Pietà>, che con <Il prigioniero coreano> gira un film semplice, amaro ed emblematico: un apologo prima politico, poi kafkiano e infine umanissimo sul feroce e attualissimo paradosso di una libertà individuale ovunque schiacciata dalle logiche paranoiche del potere.
A causa di un guasto della barca, un pescatore nordcoreano oltrepassa il confine: una volta al Sud, viene imprigionato e trattato come una spia. Una volta rientrato al Nord sono però le autorità locali a spremerlo per essere sicuri che non sia stato contagiato dal capitalismo...
Quella del Nord è una dittatura, dove si vive in povertà; quella del Sud, in compenso, spreca a più non posso e vive di sospetti e paure: meritoriamente ripescato dalla Tucker (a un anno e mezzo dalla prima a Venezia), <Il prigioniero coreano> mette nella rete due Paesi contro. Denunciando la trappola dell'ideologia: che umilia, a ogni latitudine, i singoli e i popoli.