Hungry hearts, il film-catarsi di Costanzo

Prende in prestito il titolo a una canzone di Bruce Springsteen (ma fa quasi scattare l'applauso quando spara a tutto volume il tema di <Flashdance>...) e dice di essersi ispirato a Cassavetes (<al suo approccio un po' spregiudicato, ribelle>): ma di fatto è decisamente più bravo che presuntuoso. Anche perché giunto al quarto film, Saverio Costanzo dimostra di possedere una spiccata e per nulla banale personalità sia dal punto di vista formale che da quello narrativo, realizzando con <Hungry hearts> una pellicola soffocante e opprimente, disturbante e <malata>: un insolito approdo, o se preferite un'isola (in)felice, in un cinema italiano che al contrario cerca a ogni piè sospinto (e ad ogni costo) di piacere.

Partito benissimo - complice una ripresa a macchina fissa claustrofobica (che poi è la condizione di tutto il film), agitata e divertente, con i due protagonisti (ancora perfetti sconosciuti) che cercano di uscire dal bagno del ristorante dove sono rimasti chiusi -, <Hungry hearts>, che trasforma in breve tempo la spensieratezza iniziale in paranoia metropolitana fino a toccare atmosfere da horror dell'anima, racconta a <strappi> (con quei quadri separati da dissolvenze al nero che raccontano molto anche senza dire) la storia di una giovane coppia - lui americano e lei italiana -, che aspetta un bambino. La madre però sin da subito vive in maniera ossessiva il rapporto con il piccolo: e convinta di fare il suo bene non gli dà da mangiare carne e non lo espone praticamente mai alla luce del sole...

In una New York mai così poco attraente, un film che sta sempre addosso ai suoi personaggi - prima privilegiando inquadrature molto strette, poi attraverso riprese deformate - in un crescendo angosciante in cui il regista italiano coglie l'incubo molto contemporaneo di una <purezza malata>, lavorando di nuovo su temi a lui cari come la trasformazione del corpo, il rifiuto del cibo, l'isolamento, l'autolesionismo.

Tratto da <Il bambino indaco> di Marco Franzoso, girato in modo istintivo per non avere il tempo né la voglia di giudicare nessuno dei suoi personaggi, <Hungry hearts> è un film-catarsi (<volevo guardarmi con più amore e tenerezza>, ha spiegato Costanzo) potente e spigoloso dove i due bravissimi interpreti principali – Alba Rohrwacher e Adam Driver (divo della serie tv <Girls> e prossimo protagonista del nuovo <Guerre stellari> e dell'ultimo film di Scorsese) -, entrambi premiati con la Coppa Volpi a Venezia, diventano i complici perfetti di un regista che a ogni inquadratura sembra volersi (e forse volerci) mettere alla prova.


"Se mi vuoi, fammi un fischio". Lauren, la divina che amò Bogart


«Se mi vuoi, fammi un fischio: sai fischiare, no?». Dicono che un grande uomo per esserlo davvero deve avere una grande donna vicino. E' una regola non scritta, ma che trova spesso conferma. Per chi era adolescente durante l'ultima guerra, il massimo era lui: Bogey, al secolo Humphrey Bogart, il duro de «Il mistero del falco» e «Casablanca». Una specie di secondo padre, lassù sullo schermo, o almeno di fratello maggiore con cui dividere un'altra sigaretta. Quando lo incontra lei, figlia di immigrati ebrei, ha appena 19 anni ed è più alta di lui: è una modella (ma sbarca il lunario anche come maschera in un teatro) e si chiama Betty. Poi per tutti sarà solamente «The look», lo sguardo. 

Lui - che è già un divo - di anni ne ha 25 di più. Ma sarà un grande amore, uno di quelli che sanno di leggenda,  che non si dimenticano mai: tanto che quando lui se ne va  - troppo presto - lei, col cuore spezzato, per qualche tempo si mette anche con un suo sosia, scoprendo presto che non è la stessa cosa. Il cinema piange ancora: dopo lo choc per la morte di Robin Williams, il cielo perde un'altra stella, Lauren Bacall. Una diva d'altri tempi che ha saputo essere grande anche in questi: un'attrice di meravigliosa eleganza che conquistò Bogart al primo battito di ciglia. L'aneddoto è noto, tanto da essere ormai entrato nel mito. In «Acque del Sud», il film di Hawks (a scoprire la Bacall fu la moglie del regista, che la notò sulla copertina di Harper's Bazaar...) che li fa incontrare, lei ha una battuta che è già storia: «Se mi vuoi non hai che da fare un fischio. Sai fischiare, no? Unisci le labbra... e soffi!». Finite le riprese, Bogey le regala un fischietto: d’oro con incisa la battuta. La Bacall indossò il fischietto per tutta la vita. Alla morte di Bogart, si racconta che l'attrice fece mettere nell’urna cineraria un altro fischietto d’oro con su scritto «Se hai bisogno di me, fammi un fischio». 

Bogart ha aspettato a lungo, quasi mezzo secolo: poi, ieri, le ha fatto quel famoso fischio. La Bacall lo raggiunge dopo oltre 70 film: da «Il grande sonno» («ti rendi conto dei pericoli a cui vai incontro? Il pericolo più grande è la tua bocca»...) a «Come sposare un milionario». I suoi anni di gloria sono quelli che vanno dal primo dopoguerra alla morte di Bogey, nel '57: newyorkese sino al midollo, sinuosa e carismatica, spiritosa, con un carattere forte che intimidiva lo stesso Bogart, la Bacall, pur con alcune pause, non ha mai smesso di lavorare. Tanto che la prima - e unica - nomination all'Oscar (ne vincerà uno poi alla carriera) arriva quando ha già 73 anni per «L'amore ha due facce» di  Barbra Streisand. 

L'ho vista una sola volta, a Venezia, dieci anni fa: arrivò (per «Birth») insieme a Nicole Kidman, la diva del momento, versione pre-botulino. La Kidman irradiava bellezza, eppure, a 79 anni, la Bacall quel mattino la oscurò. Non era solo una bellissima signora: aveva qualcosa in più. Era, come dire,  senza paura. Iconica, senza farlo pesare: ma estremamente consapevole della leggenda che si portava sulle spalle. Anche per questo i registi continuavano a cercarla: i vecchi leoni come Altman che la volle in «Pret à porter», il suo pamphlet contro la moda, ma anche i nuovi autori più controcorrente, come Lars von Trier, fama di mangia interpreti, che la riverì come una dea in «Dogville» e «Manderlay». «The look» ora ci guarda dall'alto: segue il sibilo di un fischio là dove riposano - senza potere smettere di brillare - le stelle. 

 

Un Leone per Thelma, la regina di Scorsese

Avete presente i meravigliosi combattimenti sul ring di Toro scatenato? Molto del merito è suo. E gli omicidi che toglievano il respiro di Quei bravi ragazzi?  Sempre lei. E il ritmo sincopato e adrenalinico di The wolf of Wall Street? Avete già capito. A me sembra una bellissima idea e mi fa piacere che l'abbia avuta la Mostra di Venezia: quest'anno il Leone è una Leonessa. Ma non una così a caso: un tecnico, una montatrice, una di quelle che sul set non ci va nemmeno. Pensateci: i premi alla carriera, come il Leone d'oro, di solito vanno nelle mani solo di grandi registi o attori di fama assoluta. Se proprio va bene - ma ti dive chiamare Cesare Zavattini - rare volte anche agli sceneggiatori. Ma una montatrice, in passerella, è difficile vederla. Questa volta però accadrà: perché la Biennale onora una delle più grandi del taglia e cuci cinematografico, Thelma Schoonmaker. Una signora di 74 anni che fa parte della Scorsese connection, la squadra di collaboratori fidatissimi da cui Martin non si separa mai. Ma Thelma è qualcosa di più: è l'alter ego di Scorsese, è la donna che detta i tempi del cinema moderno oltre che di uno dei più grandi registi di sempre. Si conoscono da una vita, sono amici da quando erano ragazzi: Thelma da Toro scatenato in avanti ha montato tutti i suoi film. Tutti, non uno sì e uno no. Lei, nata in Algeria e cresciuta ai Caraibi, sa cosa ci vuole: non credo che Scorsese, a questo punto, abbia nemmeno bisogno di spiegarglielo. Se i film di Scorsese sono così riconoscibili, potenti e pieni di energia, è anche perché passano dalle sue mani. Che a vederla così, adesso, sembra uscita dalla Signora in giallo: e invece è davvero una regina e non solo per i suoi tre, meritatissimi, Oscar. A proposito: quest'anno Thelma non l'hanno nemmeno candidata. Che bisogna essere ciechi se hai visto The wolf of Wall Street. Pazienza: si rifarà a venezia. Lei che anche fuori da quella cabina di montaggio ha avuto una vita da vivere: come quendo ha sposato Michael Powell, un genio vero, regista immenso e accantonato, che aveva 35 anni più di lei. Sia Scorsese che Powell il Leone d'oro alla carriera l'hanno vinto: ora è il suo turno. Il turno di Thelma mani di forbice.