Chiamatelo Francesco: il Papa che venne dalla fine del mondo
<Da che parte stai prete?>. <Da quella di Gesù>.
Chiamatelo Francesco: il missionario mancato, il gesuita che ubbidiva solo agli ordini della sua coscienza, il sacerdote degli ultimi esiliato a dare speranza dove a regnare era solo la disperazione. Ma anche il tifoso del San Lorenzo, lo studente timido e fidanzato, il Papa che viene <dalla fine del mondo>. Lo ha girato un laico mettendosi nei panni di chi crede, evitando il santino ma cercando invece l'uomo, il film (quasi un instant movie) su Jorge Mario Bergoglio, il vicario di Cristo che mangia in mensa come uno di noi e salda i conti negli alberghi dove ha alloggiato. Non tanto il Papa del sorriso quanto, nella seria ricostruzione di Daniele Luchetti, un'anima inquieta, accigliata, per il destino spesso amaro dell'umanità, un uomo di Dio interessato e coinvolto dal prossimo suo che si caricò sulle spalle le preoccupazioni del mondo: e con fede, coraggio e compassione affrontò, per lenirle, ingiustizie tragicamente terrene.
Pensato inizialmente per la tv (la matrice è chiara e non a caso sul piccolo schermo ne verrà trasmessa una versione di 4 ore in due puntate), <Chiamatemi Francesco> ha il merito di preferire la dimensione realistica e storica del personaggio Bergoglio a quella agiografica o retorica, facendo un ritratto molto umano, informale, vicino, intimo, di un Papa costretto (ben prima di giungere al soglio di Pietro) a lottare tutta la vita con il sistema, con i lacci e i nodi del potere, che fosse quello – feroce – dei militari o quello del denaro, la speculazione edilizia piuttosto che una Chiesa che preferiva fare finta di non vedere né sentire.
Dall'Argentina del dopo Peron agli anni terribili e infernali della dittatura (il cuore del film), alle messe celebrate nelle baraccopoli tra galline e maiali all'ultimo conclave: utilizzando due interpreti (Rodrigo De la Serna, molto intenso, è Bergoglio da giovane mentre Sergio Hernandez è il Papa poco prima dell'elezione), Luchetti segue in maniera lineare (sin troppo, a tratti) più di mezzo secolo di vita di un uomo incapace di omologarsi. Il film è puntuale, convinto, corretto, coerente: se mai, il limite è nel volere raccontare (per quanto con un piglio a sprazzi autorale) in modo convenzionale un personaggio <rivoluzionario>. Che appare più forte e appassionato, nella sua verità, di qualsiasi riduzione cinematografica.