Dune: Parte 2, la bellezza e l'orrore
È proprio così: «la bellezza e l'orrore». La maestosa magnificenza dell'orizzonte del nulla e la brutalità affilata e «banale» del sangue e delle lame. Là dove tutto è rito, cerimonia, iniziazione, Denis Villeneuve continua a diffondere il verbo: e con implacabile (e strisciante) forza seduttiva (la «reverenda madre» del suo cinema) nutre il battito visionario di un kolossal sì epico e romantico, ma soprattutto politico. «contemporaneo».
Perché nella storia del ragazzo che non voleva essere il messia - ma bevuto il veleno dell'ambizione è costretto ad accettare il suo destino e a vestire i panni dell'eletto che può indicare la via -, il grande regista canadese de «La donna che canta» e «Arrival» agita anche le profezie dell'oggi, tra incubo nucleare e rivolta terzomondista, strenua difesa del sistema (che si autorigenera sempre uguale a se stesso) e guerra santa, realpolitik e protervia del controllo. Costruendo, nella continua contrapposizione degli accecanti ocra e arancio degli esterni e del buio marziale degli interni, l'ipotesi di un (altro) mondo possibile.
Trascendente e metafisico (ma d'altra parte opportunamente ancorato a una fantascienza tangibile, di carne, polvere e metallo), il secondo atto di «Dune», film-progetto pensato e realizzato in grande, fonde il racconto di formazione (l'ascesa di Paul Atreides che, accolto dai ribelli Fremen, ne diventa il leader contro gli invasori Harkonnen) con il melò (la storia d'amore con l'indigena e laica Chani, sentimentale ma razionale, di gran lunga il personaggio più integro), cavalcando suggestioni mistico-shakesperiane che rinnovano - complice un cast molto glam, molto «figo» (Chalamet, Zendaya, ma anche new entry come il leggendario Christopher Walken e un irriconoscibile e mai così crudele Austin Butler) - una suggestione potente, una fascinazione avvolgente.
Laggiù, nel pianeta di sabbia: su un campo di battaglia dove la smisurata brama di potere incontra la fede più assoluta: quella nella speranza.